Ernst Hartwig Kantorowicz, storico tedesco di origine ebraica, è l’autore del celebre
I due corpi del re. L’idea di regalità nella teologia politica medievale del 1957 (trad. it., Einaudi, Torino 1989). Nato a Posen – ora Pozna
ń, in Polonia – nel 1895, laureatosi a Heidelberg, insegna Storia Medioevale a Francoforte a partire dal 1930. Con l’ascesa al potere del nazionalsocialismo sospende l’attività didattica e, nel 1939, emigra negli Stati Uniti insegnando prima a Berkeley e poi a Princeton, città dove muore nel 1963. Fra le sue altre opere segnalo
Federico II imperatore, la maggiore, del 1927 (trad. it., 3
a ed., Garzanti, Milano 2000), Laudes Regiae
. Uno studio sulle acclamazioni liturgiche e sul culto del sovrano nel Medioevo del 1946 (trad. it., Medusa, Milano 2006), nonché la raccolta di saggi postuma dal titolo
La sovranità dell’artista. Mito e immagine tra Medioevo e Rinascimento (trad. it., Marsilio, Venezia 1995).
I misteri dello Stato riunisce alcuni saggi già apparsi separatamente negli anni 1944-1957, il cui filo conduttore è – per usare le parole del curatore nell’introduzione (Finzioni, pp. 7-34) – il "[...] passaggio dalla sovranità del Principe fondata sulla regalità del Cristo alla sovranità incentrata sul concetto di legge. Quest’ultima si afferma proprio tramite la sua divinizzazione, che conduce alla divinizzazione della stessa comunità politica" (p. 16), che si compie mediante "[...] una progressiva appropriazione del teologico da parte del politico" (p. 17) e una continua interferenza simbolica fra il potere spirituale e quello temporale.
Il primo saggio – La regalità (pp. 37-65) – è incentrato sull’ascesa dei giuristi e le relative conseguenze sulla regalità. Benché anche l’Alto Medioevo abbia conosciuto diversi ordinamenti legislativi – per esempio le varie leges barbarorum –, per influsso del diritto romano "[...] nell’arco di una generazione o due emersero agli inizi del XII secolo un diritto ecclesiastico e un diritto secolare a carattere universale" (p. 39), la cui interpretazione scientifica conferì una posizione di rilievo ai giuristi, i quali pretesero il titolo di domini in quanto membri della nuova militia legum sorta accanto alla militia caelestis (il clero) e alla militia armata (la cavalleria), fino a sottrarre gradualmente al sovrano – che pure rimaneva fonte del diritto – le sue prerogative di giudice. "Andrea da Isernia, che scriveva intorno al 1300, fu il primo ad affermare che il re doveva affidarsi ai suoi giuristi perché raro princeps iurista invenitur, "raramente un principe è un giurista"" (p. 47). Se, per un verso, la regalità subiva o rischiava di subire limitazioni a causa dell’ascesa dei giuristi – come attestano le dispute circa la lex regia e le sue implicazioni in materia di sovranità popolare e di origine del potere imperiale, oppure la questione del rapporto tra il sovrano e le leggi (a legibus solutus o legibus alligatus?) – d’altra parte proprio da qui scaturì una nuova immagine e una nuova sacralità del re legislatore, in sostituzione del re che preserva le leggi esistenti. "In questo modo, il rex legislator andava a sostituire il più religioso rex iustus. L’immagine di Giustiniano [483-565] e di Triboniano [500-542] cominciò così ad adombrare quella di Melchisedech, il cui nome era tradotto come rex iustitiae" (p. 56). Il sovrano recuperava così quel carattere sacerdotale che la Chiesa non gli riconosceva, mediante una specie di "sacerdozio giuridico" e una "[...] spiritualizzazione o una santificazione della sfera secolare" (p. 59), per cui l’imperatore veniva definito vicarius Dei, controparte del vicarius Christi ecclesiastico, il Papa. Parallelamente le monarchie territoriali a partire dal secolo XII assunsero gradualmente quelle prerogative politiche e spirituali attribuite all’imperatore, dal diritto di nominare notai alla pretesa di dominare gli elementi. Al punto che il politico e scrittore inglese Samuel Pepys (1633-1703) "[...] avendo visto nell’estate del 1662 re Carlo II [1630-1685] navigare sulla sua scialuppa sotto una pioggia torrenziale, annotava efficacemente: "Mi sembra che diminuisca la mia stima in un re, che non sarebbe in grado di comandare nemmeno la pioggia"" (p. 64).
Il secondo saggio, Pro patria mori (pp. 67-97) prende le mosse da una discussa lettera pastorale scritta nel Natale 1914 dal primate del Belgio cardinale Desiré-Félicien-François-Joseph Mercier (1851-1926), che considerava la morte in guerra per la patria garanzia di salvezza eterna, in quanto assimilabile al martirio cristiano. Rispetto all’antichità, con l’avvento del cristianesimo "la morte civica pro patria, qualsiasi "patria" si intendesse, aveva perso il sapore religioso e le connotazioni semi-religiose" (p. 71), poiché la vera patria per la quale morire era quella celeste. Certamente l’antica nozione persisteva, per esempio nelle preghiere dei monaci franchi pro statu ecclesiae et salute regis vel patriae, ma resta il fatto che un vassallo versava il proprio sangue per il suo signore concreto o per la sua contea, non per "la patria". La svolta in senso moderno, per cui il regno di Francia poté imporre una tassa ad defensionem patriae, avvenne tra XII e XIII secolo. "Ma valeva la pena morire per quella patria come i martiri morivano per la patria in Paradiso?" (p. 78). Ciò era possibile prima mediante l’equazione fra la Crociata per la Terra Santa e la guerra per il regno di Francia, e poi col parallelismo fra Cristo e il principe, fra il corpo mistico della Chiesa e il corpo mistico dello Stato, fino al nazionalismo moderno per cui il cardinale francese Louis Billot (1846-1931) obiettava al confratello belga: "[...] qui si è sostituito la patria a Dio" (p. 97).
Deus per naturam, Deus per gratiam (pp. 99-129) sono i concetti principali della "cristologia politica" (p. 99) di un Anonimo normanno che intorno al 1100 scriveva: "Il potere del re è il potere di Dio, ma mentre il potere appartiene a Dio per natura, al re appartiene per grazia" (p. 100); le parole dell’Anonimo riecheggiano quelle di Papa Giovanni VIII (872-882) che nell’875 aveva incoronato imperatore Carlo il Calvo (823-877) "ad imitationem [...] veri Regis Christi filii sui [...] ita ut quod ipse [Christus] possidet per naturam, iste [imperator] consequetur per gratiam" (p. 105), ma nella formula papale emergono il concetto di imitatio Christi, nonché l’antitesi tra possedere (per natura) e ottenere (per grazia), la quale "[...] si ricollega all’antitesi pitagorica o ellenistica di "Dio per physis" e di "dio per mimesis", che i filosofi post-classici o tardo antichi avevano accolto nelle loro teorie sulla regalità" (p. 126), con la differenza che se la mimesis del pensiero pagano è uno sforzo puramente umano, per i cristiani la divinizzazione può avvenire solo con l’intervento di Dio.
Sulla Invocatio nomini imperatoris (pp. 131-152) si fondava l’istituzione siciliana della defensa, introdotta nel regno da Federico II (1194-1250), che garantiva sicurezza a chiunque invocasse il nome dell’imperatore e richiamava pratiche già note ad Apuleio (125-180) e nell’Egitto dei Tolomei. A Roma generalmente si chiedeva protezione alle immagini dell’imperatore, da cui l’espressione ad statuas confugere e il ricorso a "[...] espedienti illeciti come quello di tenere sempre in tasca una moneta al fine di "interporre" in ogni momento l’immagine dell’imperatore, esibendola come un amuleto contro un aggressore" (p. 140). Entrambe le pratiche comunque si basavano sull’ubiquità del sovrano in quanto persona publica, benché nel XIII secolo ancora non fosse chiara la distinzione fra il re e il suo ufficio regale: solo quest’ultimo infatti, secondo il giurista britannico William Blackstone (1723-1780), è onnipresente e sempre pronto a proteggere i sudditi.
Il quinto saggio, ΣΥΝΘΡΟΝΟΣ ΣΙΚΗΙ. La Giustizia che siede in trono (pp. 153-163), è dedicato alle raffigurazioni dell’autorità che condivide il trono con la Giustizia, secondo quanto ci tramandano alcune iscrizioni riferibili, in senso cultuale, a "[...] veri e propri santuari della dea Dike di fronte ai quali "i Greci del IV secolo erano soliti erigere statue di quei proconsoli che intendevano onorare"" (p. 156), oppure interpretabili in senso puramente metaforico, poiché "[...] il santuario stesso, secondo il suo [dello studioso francese Louis Robert (1904-1985)] punto di vista, era semplicemente il praetorium" (p.157). In ogni caso, "quando le autorità erano raffigurate accanto alla dea, apparivano di fatto come "coloro che condividono il trono di Dike"" (p. 163), anche nell’arte, a Costantinopoli come a Monte Cassino, in raffigurazioni che pur risalendo al X-XI secolo, riflettevano una tradizione precedente che concepiva Dike e le altre virtù come compagne di trono del sovrano e, di riflesso, dopo la metà del III secolo anche dei governatori.
L’unità del mondo medievale (pp. 165-174) è stata indubbiamente un mito più che una realtà concreta, ma per il pensiero medievale un’unità desiderata contava più della divisione reale; anzi, "L’assenza dell’unità era considerata una momentanea defezione che poteva essere trascurata solo perché, presto o tardi, sarebbe stata ristabilita" (p. 168). Questo mito, in attesa di realizzarsi, si esprimeva nella liturgia o nella cognatio spiritualis che legava l’imperatore bizantino al "fratello" franco; in conclusione "[...] l’unità del mondo medievale, così come è stata concepita tanto all’Est quanto all’Ovest, è principalmente di natura escatologica e la sua realtà si identifica con la reale presenza del Signore nei sacramenti" (p. 174).
Nel settimo saggio, Kantorowicz affronta la curiosa analogia Christus-fiscus (pp. 175-185). Se "al pensiero giuridico dell’Alto Medioevo non era nota una vera e propria distinzione tra l’ufficio e la persona del sovrano, tra la "Corona" sovrapersonale e il suo esclusivo detentore" (p. 175) a partire dal XIII secolo questa differenziazione si va affermando, insieme al "[...] passaggio dai beni impersonali del sovrano al fisco impersonale" (p. 178). Alla luce di tale passaggio si comprende la massima fiscus non moritur, ma soprattutto il paragone tra i beni della Chiesa e quelli del fisco, elevati a res quasi sacrae.
L’ultimo saggio è dedicato esplicitamente a I misteri dello Stato (pp. 187-221). Fra il potere spirituale e quello temporale avvenne un reciproco scambio simbolico, così che entro la fine del XIII secolo l’uno assunse le caratteristiche dell’altro e "[...] gli arcana ecclesiae spirituali si trasferirono allo Stato così da produrre i nuovi arcana imperii dell’assolutismo" (p. 189), cioè quei misteri dello Stato espressione di una nuova figura di rex et sacerdos, il cui "[...] carattere proveniva non tanto dall’unzione con l’olio santo, ma dall’analogia di Ulpiano [† 228] dei giudici con i sacerdoti" (p. 199). Fra i misteri dello Stato rientrano naturalmente anche i "due corpi" del re – quello naturale e quello "mistico" di cui egli è capo, con evidente riferimento cristologico – "[...] cosicché alla fine il sovrano francese poté pretendere di avere due angeli custodi, uno a causa della sua persona individuale e l’altro a causa della sua dignità" (p. 217). In conseguenza di questo itinerario di divinizzazione della sfera secolare, "[...] lo Stato assoluto moderno fu in grado di avanzare pretese allo stesso modo della Chiesa perfino in assenza di un principe" (p. 221).