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a cura dell’Istituto Storico dell’Insorgenza e per l’Identità Nazionale


inserito il 25 gennaio 2008



RECENSIONI


Aurelio Musi, Il feudalesimo nell’Europa moderna, il Mulino, Bologna 2007, 344 pp., € 26,00.


Il feudalesimo — termine che, a causa della ricostruzione ideologica dominante nei secoli XVIII e XIX, evoca un sistema fondato su privilegi ingiustificati, su una rigida sottomissione gerarchica e sul cedimento del potere politico a corpi privati — ha costituito una delle strutture portanti della società europea, contribuendo a riedificare dal basso, mediante legami interpersonali di fedeltà, una società in crisi profonda a partire dalle cosiddette invasioni barbariche del secolo V e giungendo a rappresentare un sistema di governo, oltre che «[...] un modo di vita, un atteggiamento mentale che si impresse in tutti i rapporti sociali» (p. 21). Per quanto indissolubilmente legata al Medioevo, questa particolare istituzione appartiene a pieno titolo anche all’Età Moderna, dove si presenta come un regime delle terre e degli uomini, nonché un sistema economico e di rapporti sociali: su di essi ha indagato Aurelio Musi, ordinario di Storia Moderna presso l’Università di Salerno, nel suo studio su Il feudalesimo nell’Europa moderna.

Musi si sofferma preliminarmente sulla mutazione semantica del termine, che non designa più un fenomeno storico limitato nel tempo e circoscritto nello spazio, bensì un concetto molto fluido, applicabile a ogni epoca e usato per caratterizzare gli aspetti più arretrati delle istituzioni e le forze sociali più egoiste, con un deciso spostamento dell’idea feudale dal piano giuridico e politico a quello economico e sociale. Dunque, «fare ordine nel lessico, storicizzare il feudalesimo medievale e moderno, fornire alcune coordinate interpretative per orientarsi nel rapporto fra presente e passato, senza incorrere nel rischio di anacronistiche procedure analogiche o assecondare tendenze all’uso pubblico e indiscriminato della storia» (p. 13) sono gli obbiettivi principali perseguiti dallo storico, che intende anche smentire il luogo comune, diffuso nei secoli XVIII e XIX, secondo cui la feudalità ha rappresentato un grande ostacolo allo sviluppo economico, sociale e civile.

Le differenze principali tra il feudalesimo medievale e quello moderno riguardano la patrimonializzazione del feudo, la sociologia del baronaggio, le nuove funzioni economiche da esso svolte e il rapporto fra lo Stato moderno in formazione e l’organizzazione feudale, giacché fra il Basso Medioevo e la prima Età Moderna la tendenziale concentrazione della sovranità crea una tensione inedita per il governo degli spazi politici.

Il feudalesimo medioevale non era l’unico sistema di rapporti in un’epoca caratterizzata da una grande ricchezza di diritti, di obbligazioni e di relazioni; su ogni territorio, infatti, convivevano una molteplicità di giurisdizioni, che si configuravano come poteri concorrenti in uno stesso spazio politico: «Nella lunga transizione che ha segnato la vicenda dello stato moderno l’intreccio di giurisdizioni e il pluralismo dei fori hanno costituito a lungo la fisionomia tipica dei sistemi di rapporti in Europa» (p. 52). Con l’età dell’imperatore Carlo V d’Asburgo (1500-1558), invece, ha inizio una fase di passaggio e di mescolanza fra vecchi e nuovi modelli di organizzazione del potere: se da un lato non vengono meno i fondamenti pattizi del potere monarchico e l’imperatore ricorre agli antichi valori di fedeltà, di lealtà e di vassallaggio, custodendo l’ordinamento feudale sia nell’organizzazione interna degli Stati sia nelle relazioni internazionali, dall’altro lato Carlo V cerca di concentrare alcuni poteri nella sua figura, pur senza trasformarsi nell’unico titolare della sovranità. La logica dell’integrazione e degli aggiustamenti caratterizza il sistema dei rapporti politici e sociali durante la formazione dello Stato moderno, che nel sistema imperiale spagnolo — a partire dal regno del successore di Carlo, Filippo II (1527-1598) — è caratterizzato da un processo d’integrazione dinastica messo in atto dalla monarchia asburgica attraverso la razionalizzazione dei comportamenti amministrativi, la creazione di un apparato «statale», la circolarità delle carriere, l’inserimento della nobiltà nel progetto egemonico della monarchia e la concessione di feudi e di benefici ecclesiastici nella disponibilità della Corona. Con la formula del «compromesso» (p. 108), utilizzata negli studi sul Mezzogiorno d’Italia nell’età spagnola, s’indica appunto lo scambio politico fra la monarchia, che riconosce un insieme di interessi e di privilegi nei territori soggetti, e i ceti territoriali, che accettano la sovranità unica del re e l’impegno di fedeltà nei suoi confronti.

Sotto il profilo sociologico i titolari di feudo vanno a costituire una formazione cetuale che, pur svolgendo funzioni di quantità e qualità diverse, diventa parte integrante della società che verrà detta «di antico regime»: «Si tratta di un gruppo dotato di un insieme di privilegi giuridicamente riconosciuti e socialmente riconoscibili, di giurisdizione cioè, che condiziona la specifica valutazione sociale, il sistema di valori. [...] I poteri di signoria conferiscono agli appartenenti a questo ceto risorse materiali e immateriali che condizionano in varia misura i rapporti economici e sociali, la relazione col potere politico ecc.» (p. 183).

È possibile distinguere fra un’Europa settentrionale, soprattutto l’Inghilterra, dove il feudalesimo scompare alla fine del Medioevo; una Europa mediterranea, dove le stratificazioni interne all’aristocrazia e il diverso dinamismo sociale rendono il feudalesimo tuttora una delle articolazioni complessive della società; e una Europa centro-orientale, in cui il feudalesimo rimane la struttura costitutiva della società fino al secolo XIX.

Sotto il profilo più strettamente giurisdizionale vi è maggiore disomogeneità. Se nella Germania centro-occidentale le maglie della giurisdizione feudale non erano strette, nella Germania a est del fiume Elba la nobiltà prussiana aveva esteso la sua giurisdizione fino a controllare l’alta amministrazione e i posti di giudice rurale. Anche l’area asburgica presentava differenziazioni, di modo che il «moderno» e il «feudale» si sovrapponevano e si mescolavano, formando una sorta di amalgama. In Polonia il sistema di rappresentanza parlamentare conferisce alla nobiltà un potere politico superiore a quello di altre aristocrazie europee, ma l’assenza di gerarchie vassallatiche articolate e quindi di una vera e propria relazione feudale, nonché il fatto che i nobili polacchi erano signori fondiari allodiali, fanno della Polonia l’opposto di un territorio feudale in senso tecnico.

Nell’Europa mediterranea, comprendente sia aree di feudalesimo spontaneo — come la Penisola Iberica e la regione francese —, sia aree di feudalesimo impiantato, come il Mezzogiorno d’Italia e la Sicilia, vige il binomio possesso terriero-giurisdizione, nel senso che i signori non sono semplici proprietari terrieri ma godono una serie di diritti sul territorio.

Nell’Età Moderna tutto il Continente è interessato da processi economici e sociali che rimodellano il ruolo dell’aristocrazia feudale e inducono a parlare di una rifeudalizzazione, termine molto diffuso fra gli storici negli anni 1960 e 1970, anche grazie all’ambiguità della categoria, che poteva ricomprendere fenomeni di spessore assai diverso. Il dibattito è stato animato da quanti interpretavano il feudalesimo solo come sistema economico-sociale: in Italia la scuola einaudiana, che teorizzava il «blocco di quindici secoli nella storia economica e sociale italiana» (p. 168), all’estero le posizioni dello storico marxista inglese Perry Anderson, secondo cui lo Stato assoluto è la logica conseguenza dello «Stato feudale». A questa linea si opponeva, in Italia, una linea più attenta ai nessi fra economia, società e politica e più libera da pregiudizi di natura ideologica.

Lo storico napoletano Giuseppe Galasso e la sua scuola preferiscono parlare di «nuovo equilibrio feudale» e ricorrono in modo più equilibrato e sfumato alla categoria di «crisi del Seicento»: in quel secolo, infatti, sono presenti fattori di decadenza ma anche di dinamismo, perché spesso sviluppo e stagnazione coesistevano nella stessa area geoeconomica. Mentre nel Mezzogiorno i baroni rafforzano le loro prerogative, diventando bersaglio di una raffinata polemica antifeudale — «Eppure sul terreno dei comportamenti e della storia socioculturale dell’aristocrazia feudale meridionale le tinte più sfumate, i chiaroscuri prevalgono sui colori netti, precisi. Quanti luoghi comuni, quanti stereotipi sono ancora da rivedere!» (p. 211) —, nell’Italia centrale e settentrionale la proliferazione delle investiture non dimostra il rafforzamento del feudalesimo, ma riflette il ricorso dei governi a nuove investiture per reperire entrate straordinarie in cambio di titoli altisonanti concessi ai nuovi ceti emergenti, desiderosi di maggior prestigio. Nel Piemonte sabaudo e nella Toscana medicea i sovrani accentuano la natura patrimoniale del feudo e limitano sensibilmente i poteri giurisdizionali dei titolari, senza intaccarne la forza economica e sociale, rivedono patti e privilegi, costruiscono un rapporto privilegiato con la nobiltà di servizio. Gradualmente il feudatario tende a diventare un’articolazione dello Stato in formazione, sviluppando alcune importanti funzioni delegate: «Nel Medioevo nobile è un uomo che altri ritengono nobile. Nell’Età moderna nobile è un uomo che il re ritiene nobile» (p. 111).

Gli intellettuali illuministi mettono in discussione la funzione politico-amministrativa della feudalità e propongono l’alienazione delle funzioni fiscali e giudiziarie in favore dei sovrani allo scopo di stabilire un rapporto diretto fra lo Stato e i sudditi, «[...] utilizzando anche i segnali di cambiamento interni alla grande nobiltà feudale e di seggio influenzata dall’ideologia massonica delle virtù e dei talenti e dai modelli dell’aristocrazia inglese e olandese» (p. 254). I rivoluzionari francesi estendono la nozione di feudalesimo all’intero antico regime e, abolendo il primo, nel 1789, danno alla loro azione un carattere prevalentemente politico anziché sociale, come vorrebbero gli storici marxisti: «quando i legislatori abolirono la feudalità non intesero promuovere una riforma agraria, ma eliminare la giurisdizione di un ceto privilegiato» (p. 292).

L’opera si chiude con un’analisi delle trasformazioni subite dalla feudalità nel secolo XVIII e infine con una panoramica dei tempi e dei modi della sua abolizione nelle diverse aree europee.


Francesco Pappalardo


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