Numerose personalità della politica, della cultura e dell’informazione, ad intervalli cadenzati, reclamano scuse e autocritica da parte della Chiesa cattolica per quello che genericamente viene definito il «genocidio degli indios».
Forse dimenticano che la Chiesa, pur con inevitabili ombre, si prodigò per tutelare la dignità indigena, e che nella zona messicana, in quella andina e in molti territori brasiliani, quasi il 90%o della popolazione o discende direttamente dagli antichi abitanti o è il frutto di incroci fra indigeni e nuovi arrivati europei.
Così che Giovanni Paolo II, tirando un bilancio della scoperta e dell’evangelizzazione del Nuovo Mondo a 500 anni di distanza, poteva con tranquillità affermare che vi sono state «[…] luci ed ombre, più luci che ombre, se pensiamo ai frutti duraturi di fede e di vita cristiana» (Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti alla II Assemblea Plenaria della Pontificia Commissione per l’America Latina, 14 giugno 1991).
Supporta questa tesi, con rigore storiografico e con chiara evidenza espositiva, il recente libro di Marina Massimi, già autrice di numerosi volumi sulla cultura e sulla società brasiliana nel periodo coloniale, nonché docente presso il Dipartimento di Psicologia ed Educazione della Facoltà di Filosofia, Scienze e Lettere dell’Università di San Paolo, in Brasile.
La sua opera si inserisce nel sempre acceso dibattito culturale sulla conquista dell’America Latina e sui suoi effetti sulle popolazioni indie. Essa si fonda soprattutto sull’epistolario dei numerosi missionari gesuiti che, a partire dalla seconda metà del XVI secolo, viaggiarono ed esplorarono gli immensi territori brasiliani. Le lettere narrano di grandi consolazioni spirituali nell’incontro, di solito amichevole, con i nativi, senza però nasconderne le difficoltà legate ad «[…] alcuni costumi sociali profondamente radicati, come quello della poligamia e dell’antropofagia rituale» (p. 49). Momenti di esaltazione si alternavano quindi a quelli di sconforto e di timore, specie nei confronti di tribù particolarmente sanguinarie; non mancarono tuttavia atti di eroismo e di martirio, e vi fu anche chi invocò la protezione delle armi portoghesi.
La lingua con cui i missionari si esprimevano erano naturalmente il portoghese, lo spagnolo e il latino, ma ben presto comunicarono nei vari idiomi locali, che i gesuiti non solo appresero, a costo di enormi difficoltà, ma pure codificarono. Aveva così inizio anche in Brasile quell’operazione di inculturazione cristiana, di cui la Compagnia di Gesù sarà benemerita e maestra e che attuerà dal Nuovo Mondo sino all’Africa e all’Estremo Oriente.
La predicazione dei missionari si rivolgeva tanto agli indigeni quanto ai rari coloni portoghesi. Ben presto, però, si venne a creare un incolmabile strappo fra i coloni, avidi di facili guadagni, e i predicatori della Compagnia di Gesù, gelosi custodi della dignità degli indio, affidati alla loro cura pastorale dalla stessa monarchia di Portogallo. D’altronde, almeno inizialmente, i sovrani lusitani erano animati dal sincero desiderio di evangelizzare le Indie, tanto orientali che occidentali. A metà del XVI secolo tale aspirazione aveva incontrato lo spirito missionario della neonata Compagnia di Gesù, frutto delle meditazioni di Sant’Ignazio di Loyola e di quella straordinaria scuola di evangelizzazione rappresentata dai suoi «esercizi spirituali».
Principale oggetto di scontro fra gesuiti e coloni divenne fin da subito l’immorale piaga della schiavitù, praticata nei confronti di indios e di africani, anche se ufficialmente proibita dalla Chiesa fin dal 1537, quando Papa Paolo III con la bolla pontificia Sublimis Deus aveva dichiarato che gli amerindi sono esseri umani che hanno diritto alla libertà e alla proprietà, condannando decisamente la pratica del loro asservimento.
La Corona lusitana, come già quella ispanica, si era posta sulla stessa lunghezza d’onda, sia pure evidenziando talune eccezioni relativamente ai prigionieri di guerra.
Una legge portoghese del 20 marzo 1570, infatti, aveva decretato la piena libertà degli indio, a eccezione dei casi in cui questi fossero caduti prigionieri nelle mani di portoghesi impegnati a combattere per una «guerra giusta», cioè praticamente nel caso in cui l’iniziativa ostile fosse partita dagli stessi indio. Tale eccezione di fatto consentiva il facile aggiramento dello spirito della legge. Fu per questo motivo che, grazie all’influenza dei gesuiti, furono successivamente emanate leggi sempre più restrittive, che miravano a delegittimare totalmente la schiavitù. Si giunse così a un editto del 1609 che la proibiva in ogni circostanza, definendola contraria al diritto naturale: anche se gli indio avessero rifiutato la religione cristiana per seguire i propri riti religiosi, dovevano comunque essere considerati e trattati come persone libere. In questo periodo difficile, ma tutto sommato di relativa collaborazione con la Corona, i gesuiti diedero vita all’esperienza delle Reducciones, esperienza resa nota al grande pubblico nel 1986 dal film Mission. Le Reducciones erano delle aree più o meno vaste, poste al confine fra Brasile, Argentina e Paraguay, dove i gesuiti costituirono per gli indio dei villaggi di impronta medievale, diretti dai padri stessi: una chiesa centrale con la piazza, e tutt’intorno le case degli indio, ognuna con il suo orto. Poi le botteghe artigiane, che non di rado si trasformavano in vere e proprie manifatture, i cui prodotti nel XVII secolo seppero farsi apprezzare anche in Europa.
Gli indio, che partecipavano al governo dei villaggi con ampie autonomie, finché rimasero nelle Reducciones, sotto la protezione dei gesuiti, furono tutelati e considerati vassalli diretti dei rispettivi sovrani, tanto spagnoli quanto portoghesi, senza interferenze di coloni e dei governatori.
Ma la violenta ribellione dei coloni alle leggi abolizioniste costrinse la Corona portoghese a ripristinare, nel 1611, la precedente «eccezione della guerra giusta», cavillo giuridico che, come detto, veniva sfruttato con relativa facilità per ridurre in schiavitù i nativi brasiliani.
I gesuiti non si diedero mai per vinti, e continuarono a protestare e a battersi per l’incolumità e la libertà degli indio: «[…] da ambedue le parti, gesuiti e coloni esercitavano pressioni sulla corona portoghese: gli uni, perché esigevano una legislazione chiara e definitiva circa la proibizione della schiavitù; gli altri, per abolire i villaggi missionari e aprire condizioni di legittimazione dello stato di schiavitù ottenuto in conseguenza di episodi bellici» (p. 160).
La lotta si protrasse con alterne vicende per tutto il XVII secolo, ma l’azione proditoria dei coloni, sostenuta dai governatori locali, risultò spesso efficace, come quando ottennero dal Re del Portogallo Pietro II l’espulsione di tutti i gesuiti dalla provincia brasiliana di Maranhao (1684) e l’arresto dei più famosi predicatori.
Le cose precipitarono ancora nel secolo successivo, allorché, con il definitivo affermarsi dell’assolutismo regio e con l’incipiente illuminismo, i monarchi portoghesi, al pari dei loro colleghi europei, iniziarono a emanciparsi dall’antico legame con la dottrina sociale della Chiesa, sentendosi sciolti da qualsiasi dovere che non derivasse dalla loro stessa autorità.
Le conseguenze in Brasile, commenta Marina Massimi, furono tragiche: le Riduzioni furono distrutte, gli indigeni dispersi o schiavizzati, la Compagnia di Gesù soppressa: «Le grandi potenze del secolo dei lumi non potevano tollerare questa eccezione. Un fatto emblematico: l’illuminista Voltaire aveva contribuito a finanziare uno dei vascelli della flotta spagnola impiegata nella distruzione. L’assolutismo – culturale e politico – non tollerava nei suoi domini l’esistenza di un soggetto sociale autonomo e costruttivo di una nuova forma di res publica» (p. 181). Fu anche grazie a ciò che il regime schiavista si protrasse in Brasile sino al 1888…