Prima del drammatico crollo del
World Trade Center, la stragrande maggioranza degli osservatori e degli analisti politici prevedevano, concordemente, una fase secolare e benigna della storia, pressoché irreversibile. L’11 settembre 2001 con l’attentato alle
Twin Towers è stato invece, per molti, l’inizio di una nuova era. Quello che è accaduto a New York in quel giorno è stato la dimostrazione più evidente che la storia, dopo la caduta del Muro di Berlino, non è finita e che se alcune ideologie sono uscite di scena, altre non meno inquietanti si aggirano misteriosamente, con inaudita violenza, proprio nel bel mezzo dell’Occidente. Su questo sfondo, il saggio del politologo statunitense Lee Harris appare come una salutare quanto provvidenziale riflessione su quello che ‘è andato storto’ nell’artefatta costruzione del diffuso ottimismo sociale che ha contraddistinto gli anni del post-Guerra fredda. L’Autore in patria ha fatto a lungo parlare di sé poiché, da ex militante
liberal passato ai repubblicani, ha compiuto un cammino coraggioso, intellettualmente significativo, che lo ha visto avvicinarsi persino al pensiero di papa Benedetto XVI in cui egli vede uno degli ultimi argini dell’Occidente contro il fondamentalismo jihadista che investe le basi stesse della civiltà europea ed americana. In dodici capitoli ‘arrabbiati’ il lettore viene condotto così tra le rovine della
Magna Europa, la cui classe dirigente politica, specchio della fase di decadenza dei popoli che la esprimono, ha perso quell’identità e quel vigore, civile e morale, che a lungo hanno caratterizzato la sua storia. Per evitare il ritorno alla ‘legge della giungla’ evocata da Al-Qaeda e dall’estremismo di matrice islamica, Harris si appella a quelli che chiama i
founding ideals, i valori universali, altra scuola parla in proposito di legge morale naturale, che non appartengono solo agli Stati Uniti d’America né solo alla storia della civiltà europea ma ad ogni civiltà autenticamente umana degna di questo nome.
Il viaggio nel mondo in frantumi di Harris inizia dalla crisi morale dell’Occidente edonista e relativista contemporaneo che non conosce la propria storia, non sa più chi sia e vive ordinariamente nella "dimenticanza" (pag. 5), ignorando gli "inestimabili doni della civiltà" (pag. 6) che ha ereditato e di cui gode senza darsi troppo peso di sapere da dove vengano né, soprattutto, quanto siano costati. Sedotto dal mito del progresso tecnico e scientifico, confortato dagli oggettivi miglioramenti che questo ha comportato in termini di benessere e di qualità della vita, rassicurato infine dalle visioni intellettualoidi post-illuministiche dell’utopia, della pace perpetua di Immanuel Kant (1724-1804) e della fine della storia di Francis Fukuyama, l’uomo della strada occidentale si è affacciato al nuovo secolo con l’atteggiamento simile a quello di un bambino che si trova in un grande parco-giochi. L’11 settembre, con tutto quel che ne è seguito, apparentemente inspiegabile secondo i suoi sofisticati canoni ritagliati sulle ‘magnifiche sorti e progressive’, lo ha invece lasciato come frastornato, privo di strumenti concreti per capire che cosa accade intorno a lui. Ha così scoperto che il cammino della storia non è sempre lineare, né facile e che quest’ultima non è già scritta ma ancora tutta da scrivere, giorno per giorno, secondo le scelte tanto dei singoli quanto delle classi dirigenti. Soprattutto, ha scoperto "l’esistenza di un nemico" (pag. 13). La ri-scoperta della categoria del ‘nemico’ è una delle grandi rivincite del realismo della ragion politica determinate dall’11 settembre. Per tanti, forse troppi, tra strateghi e osservatori geopolitici la categoria si era come dissolta di pari passo con la dissoluzione dell’ultimo impero del Male, l’impero sovietico (1991). Finita la Guerra Fredda (1946-1989), veniva considerata così definitivamente archiviata anche l’era delle contrapposizioni fra diverse aree del mondo. Questo ingenuo stato d’animo ottimistico, consolidatosi poi con la nascita dell’Unione Europea, la moneta unica, la libera circolazione di uomini, merci e capitali negli anni si è auto-alimentato abbeverandosi alle fonti avvelenate dei maître à pensée del politicamente corretto generando, complice l’avanzata del multiculturalismo egemone, un’ingombrante sindrome di Stoccolma su tutto l’Occidente. Il risultato devastante di questo processo lo si è toccato con mano all’indomani della sfida globale lanciata dal terrorismo internazionale, "un nemico che non agisce secondo i canoni bellici di Clausewitz" (pag. 39), e che rivendica la rappresentanza unica ed autorevole del mondo islamico. Politici, filosofi ed economisti intervenendo su radio, televisioni e giornali hanno iniziato a chiedersi dove l’Occidente avesse sbagliato. Il ventaglio di risposte prospettate, per Harris, è stato quanto mai eloquente: alcuni attribuirono la responsabilità e quindi la colpa della strage alla politica estera degli Stati Uniti, altri all’alleanza di questi ultimi con Israele, altri ancora al grado di povertà e di disagio in cui permane gran parte del mondo islamico, determinato in ultima analisi però sempre dell’Occidente, Europa compresa. C’erano poi le immancabili teorie del complotto secondo cui i mandanti non solo morali ma anche materiali della strage andavano ricercati nei servizi segreti, israeliani o statunitensi che fossero. In ogni caso, quasi nessuno prese sul serio l’esistenza, per l’appunto, di un nemico, di qualcuno che agisse semplicemente per contrapporsi all’Occidente rappresentato dalle Twin Towers, non perché questi avesse fatto qualcosa, ma perché questo mondo, ancor prima, esisteva. Il dibattito si rivelò palesemente anti-storico, fondato con tutta evidenza su una serie di schemi concettuali legati a un’epoca storica ormai passata, "un’epoca in cui tutti gli attori importanti di un conflitto internazionale giocavano secondo le stesse regole fondamentali" (pag. 34).
Politici e filosofi occidentali, secondo l’Autore, devono quindi riflettere sul fatto che le loro categorie culturali, venate di cosmopolitismo progressista, sono state incapaci di ‘leggere’ il corso degli eventi. Schiavi della ‘dittatura del desiderio’ in cui sono stati allevati in gioventù, sul finire degli anni Sessanta, essi "desiderano credere che immaginando una pace mondiale renderanno il mondo più pacifico e giudicano guerrafondaio chiunque non voglia credere alla stessa favola" (pag.186). Ma la realtà si dimostra ben diversa. Non è sempre vero che tutti, al di qua e al di là dell’Oceano, vogliono le stesse cose, né che il fatto di desiderare una cosa implica comunque che questa sia buona di per sé. La classe dirigente politica del Vecchio Mondo e quella che è diventata l’attuale Amministrazione americana devono rendere dunque conto dei loro fallimenti strategici. L’analisi procede impietosa e l’arringa, che non manca di un tagliente sarcasmo, raccoglie diversi elementi d’accusa. L’Autore elenca i tre grandi fallimenti del cosmopolitismo laico e liberal, significativamente definito anche come il "fanatismo degli ideali astratti" (pag. 202). Anzitutto il ‘conversionismo’, l’idea cioè che le masse delle strade arabe, o anche gli immigrati che da lì arrivano in gran numero nelle moschee d’Europa, siano ‘convertibili’ al western way of life, allo stile di vita occidentale come lo conosciamo noi oggi. Tuttavia, a ben guardare, gli attentati di New York e Londra dimostrano proprio il contrario: gli attentatori erano certamente ‘occidentalizzati’ nel senso che parlavano la lingua, vestivano e si dilettavano con i passatempi della società anglosassone ma le loro idee, le loro convinzioni, il loro ‘credo’ erano quanto di più lontano potesse esistere dal mondo tendenzialmente conformista e radical chic in cui si trovavano a vivere. Il secondo fallimento è quello che Harris chiama ‘assimilazionismo’, l’idea cioè secondo cui naturaliter un immigrato che fa l’ingresso in una nuova comunità ospitante, per poter vivere, accetterà senza colpo ferire il codice etico di quest’ultima. In realtà però, questo auspicio è costantemente smentito: sono proprio gli agguerriti ‘visionari del mondo islamico’ che chiedono alla cultura che dovrebbe integrarli di adeguarsi a loro e la storia d’altronde, magistra vitae, insegna che "un codice etico intollerante trionferà sempre su un codice etico del carpe diem" (pag. 98). In questo senso fra l’altro non va sottovalutato che, come evidenzia il ripetuto modus operandi della strategia terroristica intriso di simbolismi pseudoreligiosi, "nella fantasticheria ideologica dell’Islam radicale, il suicidio gioca un ruolo assolutamente fondamentale" (pag. 103). L’ultimo fallimento della classe politica occidentale relativista è il cosiddetto ‘seduzionismo’, secondo cui in definitiva si tratta solo di una questione di tempo: lavorati con pazienza ai fianchi, prima o poi anche i terribili kamikaze saranno persuasi a diventare felicemente ‘moderni’. "Mohammed Atta e gli altri dell’11 settembre sembrava, per come vivevano, che fossero stati sedotti […] ma in realtà erano stati educati a essere santi guerrieri, difficile sedurli con il nostro ethos [composto prevalentemente] di wishful thinking e illusioni utopiche" (pag. 99).
La conclusione di Harris è lontana dalle illusioni dominanti del politicamente corretto e non nasconde la difficoltà del momento storico: il terrorismo islamico che riporta la condizione dell’umanità alla "prassi della spietatezza" (pag. 104) gli appare una nuova forma di totalitarismo politico, in tutto e per tutto paragonabile alle grandi ideologie totalitarie che hanno devastato il continente europeo nella prima metà del XX secolo, cui spesso nella lunga riflessione viene infatti paragonato prendendo in prestito degli studi dello ‘specialista del terrore’, lo studioso inglese Robert Conquest. Come tale va affrontato, senza far credere per questo all’ingenuo uomo della strada che tutto andrà bene, che non esistono più nemici perché, comunque, il nostro è il migliore dei mondi possibili: "insistere sul mantenimento di valori utopici quando la tua società sta affrontando un nemico che vuole solo annientarti, è un invito all’annientamento. E questo è inaccettabile" (pag. 104). Il primo passo in questa direzione consiste però nel ridare diritto di cittadinanza e significato alle parole, iniziando dal dibattito pubblico, senza pericolose auto-censure.
Laicamente Harris torna a usare una parola scomoda, antipatica all’intelligencija benpensante, che da tempo era rimasta impolverata sugli scaffali ormai abbandonati della metafisica classica: male. Male è un giudizio di valore universale che contraddistingue, dalla notte dei tempi, l’orizzonte di senso di tutte le società umane che si sono avvicendate nella storia con i corrispettivi ordinamenti politici. Bandire la parola ‘male’ dal vocabolario pubblico, come pure in anni recenti è stato ripetutamente fatto dalle cattedre più insospettabili, è dunque un atto di disonestà e una forma di resa morale e intellettuale. Di più, per Harris, che da ‘laico devoto’ dimostra di saper maneggiare bene i termini apocalittici dei profeti religiosi ricordando in più di un passo quell’Oriana Fallaci (1929-2006) a cui dice di ispirarsi, sarebbe un gesto totalmente irrazionale. E i difensori della ragione, che papa Benedetto XVI ha chiamato a raccolta a Regensburg in una lectio magistralis considerata dal Nostro fondamentale per la rinascita culturale dell’Occidente sazio e disperato, non possono permetterselo. Il motivo è presto detto: in gioco stavolta non c’è semplicemente l’affermazione di una visione del mondo o di una particolare convinzione politica o ideale, bensì la salvezza stessa di quelle preziose fondamenta della civiltà umana che riposano sulle tracce immortali della philosopia perennis.