Il sessantesimo anniversario della fine della seconda guerra mondiale vede un fiorire di pubblicazioni riguardanti anche temi in realtà non risolti dalla conclusione del conflitto, ma anzi talvolta esplosi proprio nel 1945, spesso causati dall’imposizione di regimi comunisti in Europa centro-orientale.
È il caso del libro di Raoul Pupo, professore di storia contemporanea presso l’Università di Trieste e da diversi anni attento storico dell’Istria, che offre una ricostruzione molto accurata delle travagliate vicende per le quali «un pezzo d’Italia era scomparso, come se si fosse inabissato nel mare», per servirsi delle sue stesse parole (p. 7), e del quale metterò in risalto alcuni spunti problematici su cui forse è il caso di fare qualche digressione.
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La penisola istriana è connessa all’Italia da legami non meramente fisici, che possiamo tranquillamente far risalire alla Decima Regio Venetia et Histria dell’impero di Augusto. L’arrivo delle popolazioni slave a partire dal VII secolo dopo Cristo non mutò la latinità delle cittadine costiere, che videro anche qualche breve esperimento comunale per poi finire, a partire dal XII secolo, una dopo l’altra, sotto il lungo dominio della Repubblica di Venezia, durato sino al 1797 e talmente pregnante da conferire loro un’incancellabile facies istro-veneta, sia architettonica sia linguistica. Lo spopolamento delle campagne e anche dei centri urbani causato dalle pestilenze, spinse Venezia a favorirne il popolamento da parte di slavi in fuga dalla dominazione turca, producendo quella mescolanza di popolazione che rimase caratteristica dell’Istria anche sotto il successivo dominio asburgico e poi fino alla metà del XX secolo; in parte lo è ancora (1).
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Nella seconda metà del secolo XIX, il «risveglio» delle nazionalità, anelanti a recuperare la propria individualità in primis culturale per poi guadagnare il diritto all’autogoverno e quindi all’esistenza di un proprio Stato, giunse a toccare anche l’Istria, insieme con Trieste e tutta quella regione che proprio allora venne chiamata Venezia Giulia. La predominanza italiana nel mondo della cultura e dell’amministrazione cominciò per la prima volta ad essere contestata da sloveni, a Gorizia, Trieste e nell’Istria settentrionale, e croati, nell’Istria centro-meridionale e nella città di Fiume. Nacquero dunque una rivalità sempre più accesa e l’irredentismo italiano, di stampo mazziniano e liberale, che però non riguardò la totalità della popolazione italiana, mentre gli slavi erano per il momento fedeli alla monarchia asburgica. In questo periodo la coscienza nazionale era ancora appannaggio del ceto più istruito, mentre buona parte della popolazione non era in grado o non voleva ancora definirsi in base ad un’appartenenza etnica o nazionale che peraltro, come anche Pupo sottolinea, era diversamente concepita dagli ambienti italiani — nazione su base volontaristica e quindi culturale — e slavi — nazione su base etnica, vale a dire fondata su legami di sangue risalenti al remoto passato. Siffatto equivoco, al quale, per esempio, si può ascrivere la tendenza a voler rintracciare nel cognome familiare l’origine nazionale — per cui da parte slava non si accettava che persone con cognome prettamente slavo fossero in realtà di cultura e di sentimenti italiani —, riemerse proprio durante e dopo la seconda guerra mondiale e non è ancora del tutto chiaro per settori marginali della storiografia.
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Tutta questa premessa mi sembra necessaria per inquadrare correttamente le lotte ed i drammi che avvennero nella Venezia Giulia dopo il 1918, con la sua annessione al Regno d’Italia, data dalla quale Pupo fa iniziare il suo saggio. Questa sua scelta, forse dovuta a ragioni di praticità ma che potrebbe non aiutare il lettore ignaro, non toglie che egli tuttavia avverta come «il conflitto nazionale fu essenzialmente lotta per il potere locale» finché durò l’impero asburgico, per poi divenire «lotta per l’inserimento in uno Stato nazionale esclusivista» (p. 17). Sarebbe stato opportuno, dunque, ricordare come anche alcuni irredentisti istriani, in primis Francesco Salata (1876-1944), investito di responsabilità rilevanti al momento del trapasso dalla legislazione austriaca a quella italiana, fossero fautori del mantenimento di autonomie per le «Nuove Province» dello Stato italiano, inserendosi in quel filone di autonomismo municipalistico ottocentesco che aveva pur sempre mantenuto un carattere italiano sia pur in una cornice asburgica. Discorso solo in parte analogo si potrebbe fare per l’autonomismo fiumano, anch’esso prettamente italiano e strumentalmente appoggiato dalle autorità magiare — la città di Fiume, che peraltro non è in Istria, costituiva un corpus separatum dell’asburgico Regno d’Ungheria, cui apparteneva anche la Croazia — in opposizione alle mire croate, per poi entrare in conflitto anche con il centralismo di Budapest e dividersi, quindi, all’inizio del secolo XX nei due rami dell’irredentismo e dell’indipendentismo, quest’ultimo impersonato da Riccardo Zanella, fautore di quello Stato di Fiume esistito nei primissimi anni 1920 e poi soffocato ed annesso dall’Italia fascista (2).
Il nazionalismo fascista, con la sua concezione autoritaria dello Stato, non poteva tollerare autonomismi di sorta, fossero anche italiani, tanto meno quelli relativi alle pur cospicue minoranze nazionali slave presenti nella Venezia Giulia, particolarmente nella zona più interna. Le autorità fasciste diedero così luogo a numerose vessazioni, anche violente, delle minoranze, riassumibili nella messa al bando delle lingue slovena e croata e nella dispersione della classe dirigente slava. Pupo ricostruisce le vicende dell’emigrazione di alcune migliaia di sloveni e di croati in Iugoslavia, dove vennero a volte adoperati per «colonizzare» regioni, in cui vivevano altre minoranze etniche non slave — ma tace sul fenomeno analogo ed inverso di quegli italiani che lasciarono la Dalmazia ormai iugoslava, con l’eccezione dell’enclave di Zara — e formarono movimenti politici di stampo nazionalistico, i quali compirono azioni dimostrative anche di tipo terroristico in territorio italiano, scontrandosi con la durissima repressione fascista e con l’altalenanza dei rapporti fra Roma e Belgrado. L’italianizzazione forzata, però, causò senza dubbio un accumularsi di diffidenze e di rancori e si rivelò, alla prova dei fatti, velleitaria. Pupo non sfugge al confronto, spesso strumentalizzato politicamente, tra gli effetti della politica snazionalizzatrice del regime fascista e quelli delle politiche applicate nella stessa regione dopo il 1945 dallo Stato iugoslavo comunista, che portarono alla quasi totale scomparsa del gruppo etnico italiano; sembra verosimile che nel primo caso mancarono tempo e risorse e soprattutto vi fu l’errata convinzione che una comunità nazionale potesse «[…] ripercorrere a ritroso il cammino della nazionalizzazione, qualora essa fosse di costruzione recente e superficiale» (p. 40), inoltre il fascismo non si propose intenti radicalmente sovvertitori della società contadina e dei suoi valori, per cui non vi fu «un sovraccarico ideologico» in diversi aspetti della vita quotidiana (p. 42).
L’invasione italiana della Jugoslavia, nel 1941, mise in fermento il mondo slavo, gettando «l’una contro l’altra le diverse componenti etniche e politiche del Paese balcanico» (p. 63). Spiace però che anche Pupo, come larga parte della storiografia (3), non abbia fatto maggiore chiarezza sul contrasto spontaneo che, nella cosiddetta provincia di Lubiana annessa all’Italia, oppose i comunisti sloveni, sin allora minoritari, a larga parte, se non alla maggioranza, dei loro connazionali, pur essi contrari alla dominazione straniera. I partiti tradizionali, fortemente anglofili, avevano deciso di intraprendere la difesa in sintonia con il governo iugoslavo esule a Londra, il quale si trovava a sua volta in totale sintonia con gli inglesi. Draa Mihailovič (1893-1946) fu nominato capo della difesa della Jugoslavia in patria. Questa unica organizzazione di difesa legittima della Slovenia e della Jugoslavia decise di non andare allo scontro diretto con l’occupante per paura delle rappresaglie contro la popolazione civile ed intraprese azioni di disturbo delle linee ferroviarie aspettando l’avvicinamento dei fronti, quanto la situazione sarebbe stata più propizia per una rivolta generale e totale. Il partito comunista sloveno intuì la debolezza della posizione dei partiti democratici, che consisteva nella loro passività iniziale. Intraprese perciò subito, fin dall’estate 1941, ossia, chiaramente, subito dopo l’attacco tedesco contro la Russia, un’azione combinata di attacchi diretti nei confronti dell’occupante e della concorrenza politica slovena. Obiettivo generale di queste operazioni era la conquista totale del potere alla fine della guerra: gli inglesi guardarono sempre più di buon occhio i «coraggiosi partigiani di Tito» che li aiutavano militarmente, fino a che, nel 1943, non disdissero del tutto il loro appoggio a Mihailovič ed ai cattolici sloveni e fecero di Josip Broz Tito (1892-1980) il loro protetto; lo stesso obiettivo venne raggiunto in modo più brutale con eliminazioni o, meglio, gli assassini degli esponenti di spicco sloveni non comunisti. Gli attacchi partigiani contro l’occupante italiano istigarono rappresaglie brutali. La popolazione slovena si trovò così sotto un doppio fuoco comunista: quello diretto delle liquidazioni, che iniziano nel primo autunno 1941, e quello indiretto delle rappresaglie. I cattolici, tutti anglofili convinti, si trovarono così nella penosa posizione di doversi difendere davanti ai comunisti sloveni, e quindi a chiedere all’occupante le armi per questa difesa inderogabile, e di diventare paradossalmente, visti dagli inglesi, come alleati dell’occupante e quindi come loro nemici. Il tutto finì nel bagno di sangue di Kočevski Rog (4)subito dopo la fine della guerra, quando i comunisti, col tacito consenso degli Inglesi e detentori del potere assoluto in Slovenia, assassinarono senza processo almeno 12.000 connazionali, in larga parte cattolici, fra cui numerosi domobranci, ossia «difensori» della Slovenia di fronte alla brutale tattica comunista (5).
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Con queste premesse, il comunismo iugoslavo certo non poteva essere più tollerante in Venezia Giulia. Il suo atteggiamento si era preannunciato già nell’autunno 1943 con i decreti di annessione dell’Istria alla Croazia e del cosiddetto «Litorale» alla Slovenia, cui si accompagnarono i primi delitti nelle tristemente famose foibe, frutto non già di mere esplosioni di odio accumulato dalla popolazione slava durante l’oppressione fascista — come parte della storiografia anche italiana ha sostenuto a lungo —, bensì di un chiaro programma politico e di un’organizzazione efficiente. Il terrore che simili fatti suscitarono nella popolazione giuliana italiana nel suo complesso aumentò vieppiù dopo il maggio 1945, quando, con «infoibamenti» e deportazioni, le forze partigiane di Tito eliminarono non solo la presenza fascista, ma anche quella degli antifascisti democratici, compresi molti membri del Comitato di Liberazione Nazionale di Trieste e non esclusi diversi comunisti italiani non inclini ad accettare l’annessione della loro terra alla compagine statale iugoslava. La politica di «fratellanza» e di asserito rispetto della «minoranza» italiana, a cui nel suo complesso sarebbero stati riconosciuti dei diritti, simboleggiata dal tricolore verde-bianco-rosso con la stella rossa nel mezzo — che avrebbe continuato ad essere usato sino alla fine della Iugoslavia comunista, per la sparuta e malvista comunità italiana rimasta —, comportava in realtà la suddivisione fra «onesti antifascisti» e «reazionari nemici del popolo«, categoria, quest’ultima, cui finì per essere ascritta la maggioranza degli abitanti italiani, inclusi socialisti e diversi comunisti, che non accettava né l’ineluttabilità dell’annessione alla Iugoslavia né le imposizioni delle nuove autorità, tese all’instaurazione di un regime comunista secondo il modello staliniano.
Le trattative di pace a Parigi fra le potenze vincitrici della seconda guerra mondiale e l’Italia videro quest’ultima in posizioni del tutto sfavorevoli, circostanza che sfuggì a molti sostenitori militanti dell’italianità dell’Istria. La stessa richiesta di un plebiscito poteva configurarsi come un azzardo rischioso, stante l’incertezza dell’appartenenza nazionale di fasce della popolazione istriana e la prevalenza delle tesi annessionistiche filoiugoslave tra i comunisti giuliani. Non molto noto è il fatto che una proposta greca, mirante a non concedere la cittadinanza ellenica ai residenti nel Dodecaneso di origine non dodecanesina o stabilitisi nell’arcipelago dopo la conquista italiana o aventi già piena cittadinanza italiana, non fu accolta dalle grandi potenze perché «[…] avrebbe creato problemi nei territori ceduti dall’Italia alla Iugoslavia se vi fosse stata applicata per analogia» (6). Tuttavia, con la cessione dell’Istria alla Iugoslavia nel 1947, iniziò il grande «esodo» della maggioranza dei suoi abitanti, di tutti i ceti sociali — inclusi, quindi, contadini, pescatori ed operai delle città —, che si diressero per lo più verso l’Italia, dove li attendeva un futuro di permanenza per lunghi anni in campi profughi miserrimi, fra il disprezzo dei connazionali comunisti, i quali li qualificarono immediatamente come «fascisti» — e tale etichetta ha contribuito potentemente ad allontanare la ricerca storiografica dai temi connessi all’Istria ed alla sua gente —, e l’incomprensione di molti altri, non escluso il governo di Roma, che avrebbe preferito evitare l’arrivo di queste decine di migliaia di profughi, al fine di non aggravare le già difficili condizioni del Paese (7).
Pupo affronta anche il problema se l’esodo fu voluto o no dal nuovo potere iugoslavo ed esamina le tesi al riguardo, evidenziando che «l’analisi delle strategie prescelte da parte iugoslava presenta ancora larghe zone d’ombra» (p. 198), tuttavia chiarisce che «il regime di Tito pretendeva di enucleare all’interno della componente italiana una minoranza [...] per farne il soggetto di una forma di integrazione subordinata. Quanto ai residui del fascismo, vale a dire a tutti gli altri strati urbani [...], con tutta evidenza per loro non c’era alcuno spazio nella nuova Jugoslavia. Anche per quelle che l’ideologia ufficiale considerava masse popolari di lingua italiana, le condizioni dell’integrazione risultarono però troppo dure» (ibidem). Esamina quindi le motivazioni soggettive che spinsero gli esuli ad abbandonare la propria terra, evitando quello che è stato finora il grave svantaggio della carente ricostruzione di quelle tristi vicende, la mancanza di sintonia fra la storiografia accademica e la memoria dei profughi, spesso relegata in circuiti chiusi. Pupo mette in risalto la difficoltà e la novità, per molti profughi istriani, dell’immissione in un contesto urbano più «moderno«, quale ad esempio quello triestino, con conseguenti mutamenti di antichi modi di vita, per esempio per quanto riguarda il ruolo delle donne. Fraintende, però, nel citare Marisa Madieri (1938-1996), la quale «[…] ha intitolato Verde Acqua il suo romanzo di memorie sull’Esodo, dal colore del primo pullover che la fece sentire una ragazza triestina, come le altre» (p. 221). In realtà, Marisa Madieri proveniva da Fiume, quindi da un contesto urbano per certi versi non troppo dissimile da quello triestino, e nel suo struggente diario — non romanzo — ricorda quel colore come una testimonianza di amore materno, della propria madre la quale, pur fra molteplici difficoltà e sacrifici della vita da profughi, riuscì a preparare un abito nuovo alla figlia per non farla sfigurare di fronte alle compagne di scuola. Un esempio, dunque, non tanto di «modernità» quanto di valori «forti» e «premoderni» non molto diffusi in un’epoca di consumismo e di individualismo come la nostra.
La nuova frontiera tracciata nel 1947 — che non coincide con la linea Morgan, contrariamente a quanto si legge a p. 241 — avrebbe fatto perdere all’Italia anche Trieste, ma la mancata nascita del previsto Territorio Libero, dovuta ai contrasti fra le tre maggiori potenze, e poi la rottura tra Josef Stalin (1879-1953) e Tito nel 1948 rimisero in forse la sorte della città giuliana e della «zona A» del suo territorio, amministrata da un governo militare angloamericano ma sempre più attratta nell’orbita italiana. Comparve anche un movimento indipendentista, diverso però, come abbiamo accennato più sopra, dal vecchio autonomismo triestino di cui Pupo tende a considerarlo una «versione politica più radicale», anche con un certo slittamento semantico (pp. 228-229), diverso poiché si trattava di un movimento italo-slavo per giunta largamente strumentalizzato da Belgrado. L’ambiente triestino era poi vivacizzato dai contrasti fra comunisti «titini» e comunisti «cominformisti», fautori dell’indipendenza del Territorio Libero di Trieste. Non mancavano, inoltre, ambienti sloveni, ancorché minoritari all’interno della loro stessa comunità, lacerati fra il sentimento di appartenenza nazionale e l’opposizione al regime comunista imperante nella loro madrepatria (8), quantunque Pupo preferisca dedicare la sua attenzione alle organizzazioni comuniste filo-iugoslave di quella minoranza (p. 243). Egli, peraltro, chiarisce come il voto degli istriani a Trieste e l’impegno dei loro esponenti politici riguardasse particolarmente il partito della Democrazia Cristiana, anziché il Movimento Sociale Italiano, erede delle tematiche fasciste con le quali i profughi erano spesso identificati dalla propaganda comunista. Merito di Pupo è anche la ricostruzione minuziosa delle trattative internazionali che portarono alla soluzione della questione di Trieste, con i piani di intervento militare elaborati da parte italiana nel 1953 e in realtà di scarsissima applicabilità. Con gli eventi decisivi del 1954, al di là delle dichiarazioni retoriche, si capì che ormai la «zona B» era destinata a restare sotto dominio iugoslavo, come del resto fu sancito nel trattato di Osimo (Ancona) del 1975; ebbe dunque inizio la fase finale dell’esodo, protrattasi ancora sino ai primi anni 1960.
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La presenza italiana in Istria, però, sia pur ridotta ai minimi termini fra paesi spopolati e città ormai abitate prevalentemente da immigrati di altre regioni iugoslave — non solo slavi —, non svanì del tutto e riemerse più liberamente dopo il crollo della Iugoslavia, avvenuto tra lo stupore e la deprecazione del ceto politico italiano, preoccupato da una presunta rinascita dell’area di influenza tedesca nell’Europa centro-orientale e fondamentalmente ancora influenzato dagli stereotipi sullo «Stato non allineato» con cui era indispensabile — peraltro anche per pressioni esterne — mantenere buoni rapporti — il «confine-ponte» —, l’«autogestione» e altri luoghi comuni diffusi dalla propaganda titina, che avevano messo la sordina ad ogni possibilità di rievocare pubblicamente e correttamente la dolorosa storia recente dell’Istria, pena l’essere tacciati di «fascismo» o magari di «dannunzianesimo». Del pari, in Italia la sottovalutazione del fattore nazionale, operata da un ceto intellettuale largamente imbevuto di un sociologismo venato di echi marxisti, ha fatto sì che ancora oggi non si colgano appieno le potenzialità di questa rinascita identitaria che vede coinvolti molti degli attuali abitanti dell’Istria, quale che ne sia la nazionalità, i quali tendono ad un recupero del loro passato nella sua interezza e quindi anche delle radici latine, venete ed italiane. Appare perciò assai riduttivo concludere, come fa Pupo, parlando di Trieste come di «ultimo bastione dell’identità minacciata», mesta conclusione di una parabola che la vedeva inizialmente «grande città centro-europea» (p. 240). Lasciamo da parte l’allusione sottintesa al mito dei nostri giorni — peraltro di origine estranea alle terre di cui ci stiamo occupando —, quello della multiculturalità, cui ostentano di ispirarsi molti intellettuali e politici triestini odierni — dimenticando, per esempio, che una figura come lo scrittore Italo Svevo (1861-1928), conoscitore del mondo germanico e amico di James Joyce (1882-1941), era fervido fautore dell’unione della città giuliana all’Italia —, mito che fa da contraltare a quello di Trieste italianissima, oggi ritenuto, a torto o a ragione, troppo connesso col fascismo e quindi apparentemente monopolizzato da certe forze politiche, cosicché, ad esempio, le recenti celebrazioni per il cinquantenario del ritorno di Trieste all’Italia — un’Italia democratica —, che avrebbero dovuto interessare tutta la cittadinanza o almeno la sua maggior parte, hanno visto uno scarsissimo coinvolgimento delle istituzioni scolastiche e in molti casi un’aperta indifferenza da parte degli insegnanti, di coloro, cioè, che dovrebbero tramandare i valori fondanti di una comunità ma che anche qui sono ampiamente influenzati da stereotipi «anni Settanta».
Sarebbe opportuno riconoscere ormai che il fascismo ha recato gravissimi danni all’italianità della Venezia Giulia e di Trieste, una città la cui italianità peraltro si esprime ancora abitualmente attraverso l’uso del dialetto a tutti i livelli sociali, in controtendenza con quanto accade nelle altre maggiori città italiane almeno da cinquant’anni, contribuendo così a quella perifericità che caratterizza il capoluogo giuliano da decenni. In più, nella città giuliana sono ancora vivi i miti di Tito e persino di Stalin, magari abbinati in un’altra incoerenza storica. Può persino capitare di incontrare gente di lingua italiana che si esprime in termini oltraggiosi non solo verso i simboli dello Stato italiano ma anche verso gli Italiani stessi, particolarmente i meridionali, e allo stesso tempo si proclama «comunista». Questo coacervo di posizioni contraddittorie anche al proprio interno, non di rado vissute individualmente in modo francamente patologico, non è forse avvertito come problema da quegli intellettuali locali i quali si limitano a parlare di «anime divise» che è bene restino tali, non rendendosi conto, evidentemente, che in tal modo si rendono cronici l’isolamento ed il declino di Trieste. In Istria, invece, negli ultimi quindici anni si sono fatti molti passi in avanti per favorire la convivenza e la condivisione della memoria. Quello che paradossalmente sembra mancare proprio in Italia è la consapevolezza che la cultura italiana, lungi dall’essere un fattore di discriminazione antropologica, è tendenzialmente universale, per i valori ed i contenuti che ha sempre espresso, non solo nei livelli più alti. In quest’ottica, il recupero e la valorizzazione dell’italianità di tutta la Venezia Giulia non sono più motivo di scontro ideologico e politico, ma elementi fondamentali per completare il mosaico dell’unità europea.
Note
(1) Su questo fenomeno è utile la lettura dei primi capitoli del romanzo di La foiba grande dello scrittore friulano Carlo Sgorlon (1992, Mondadori, Milano 2005).
(2) L’indipendentismo fiumano fu poi definitivamente stroncato dall’occupazione iugoslava nel 1945, quando furono brutalmente eliminati molti suoi esponenti di spicco.
(3) Cfr. Joze Pirjeveč, Serbi, Croati, Sloveni. Storia di tre nazioni, trad. it., il Mulino, Bologna 2002, in cui ci si dichiara «colpiti» dall’equivalenza fra potenze democratiche e potenze nazi-fasciste istituita dai comunisti, animati da «sacro zelo rivoluzionario», nel 1941, mentre, d’altro canto, si parla di «fanatico anticomunismo» e si definisce «crociata» il tentativo dell’attuale arcivescovo di Lubiana, mons. Franc Rodé, di ottenere la riabilitazione morale per le migliaia di sloveni, compresi vecchi e donne, uccisi dai partigiani titini dopo la fine della guerra.
(4) Il massacro avvenne fra il 27 e il 31 maggio 1945; le vittime erano iugoslavi non comunisti — quasi tutti militari, rimpatriati a forza dall’Austria a opera degli inglesi —, che vennero sepolti entro cavità naturali della foresta, che ricopre l’altipiano carsico di Kočevski Rog, dove durante la guerra aveva sede il comando generale dei partigiani titini.
(5) Ringrazio per questi chiarimenti il dottor Ivo Kerze.
(6) Cfr. il mio Il tramonto del Dodecaneso italiano (1945-1950), in Clio. Rivista trimestrale di studi storici, anno XXXVII, n. 4, 2001, pp. 649-687 (p. 671).
(7) Il governo centrale nel 1946 era preoccupato anche dell’arrivo di poche migliaia di connazionali dal Dodecaneso e avrebbe preferito che restassero lì fino all’ultimo. La ditta che organizzò il trasporto delle masserizie fu la stessa cui poi si rivolse il Comitato di Liberazione Nazionale di Pola per organizzare lo sgombero della «zona «B. Una parte degli italiani del Dodecaneso rimpatriò nel 1947 con il piroscafo Toscana, lo stesso su cui avevano viaggiato i polesi — Pupo indulge all’uso del termine dialettale «polesani»). Nel giugno 1948 un deputato comunista presentò un’interrogazione al ministro dell’Interno sulle condizioni dei profughi dell’Egeo, da lui considerati, con evidente sottinteso polemico, male assistiti rispetto a quelli della Venezia Giulia. Su tutto ciò cfr. la mia op. cit..
(8) Uno dei più illustri esponenti della cultura slovena, lo scrittore Alojz Rebula, iniziò la sua carriera di insegnante proprio a Trieste, giacché per motivi politici non potè intraprendere la carriera universitaria a Lubiana. Nel 1945 il governo militare alleato intraprese la ricostituzione del sistema scolastico nella «zona A» e per le scuole slovene si valse dell’opera del professore sloveno Srecko Baraga, ripetutamente accusato dai comunisti, senza fornire prove, di aver collaborato con i tedeschi a Lubiana: cfr. A. Vernier, La politica scolastica della Amministrazione Militare a Trieste dal 1943 al 1954, in Federazione Nazionale Insegnanti Scuole Medie-Sezione di trieste, Contributi per una storia delle istituzioni scolastiche a Trieste, Libreria Internazionale «Italo Svevo«, Trieste 1968, pp. 201-254 (pp. 214-215). In questo saggio si descrive ampiamente anche la ricostituzione delle scuole slovene, coi i contrasti fra GMA e comitati comunisti; del tutto incomprensibile è il motivo per cui in Storia delle istituzioni scolastiche nella Venezia Giulia. Bibliografia essenziale, a cura di Adriano Andri, disponibile nel sito Web dell’Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione nel Friuli-Venezia Giulia, dove alla pagina <http:// www.irsml.it/testi/ Web%20Andri1.doc>, si dichiara che in quel volume «[…] non si fa menzione delle scuole slovene».
Luca Pignataro
[24.7.2005]