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e elezioni politiche del 18 aprile 1948 segnarono chiaramente
«la volontà del Paese di appartenere alla civiltà occidentale e cristiana e il suo rifiuto del socialcomunismo espresso dal Fronte popolare» (p. 7). L’Istituto Storico dell’Insorgenza e per l’Identità Nazionale (Isiin), l’Istituto di Storia Moderna e Contemporanea dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università degli Studi milanese hanno ricordato l’evento in un convegno che si è svolto a Milano il 3 e il 4 dicembre del 2004.
Gli atti sono ora stati pubblicati in volume, a cura di Marco Invernizzi, presidente dell’Isiin, saggista e studioso della storia del movimento cattolico italiano, per i tipi delle Edizioni Ares di Milano. Invernizzi, nella Presentazione (p. 7-8), sostiene che la Democrazia Cristiana (Dc), vincitrice della competizione, dopo «[…] il momentaneo compiacimento […] sembrò come vergognarsi della vittoria ottenuta» (p. 7).
Dello stesso parere è Ettore Adalberto Albertoni, professore di Storia delle Dottrine Politiche all’Università degli Studi dell’Insubria e allora Assessore alle Culture, Identità e Autonomie della Regione Lombardia, il quale, nelle pagine dell’Introduzione (pp. 9-12), afferma che la sconfitta elettorale del comunismo «[…] è stata volutamente trascurata o rimossa» (p. 10). Le sinistre, invece, andarono a fondo nella ricerca delle motivazione di una pesantissima sconfitta politica: applicando la lezione gramsciana, esse individuarono e valutarono le cause del rovescio elettorale e tracciarono su questa base un progetto di riconquista culturale della società al fine di ottenere il consenso politico degli italiani.
Eugenio Di Rienzo, docente di Storia Moderna all’Università di Roma, La Sapienza, nel suo contributo Soltanto un anno prima. Gli storici italiani e il Trattato di Parigi del febbraio 1947 (pp. 35-42), illustra il contesto nazionale e internazionale del periodo, contrassegnato dagli esiti del Trattato di Parigi del 10 febbraio 1947 — frutto, per l’Italia, della resa incondizionata dell’8 settembre 1943, ma anche del «dilettantismo diplomatico» e del «deliberato tradimento degli interessi nazionali» da parte della classe politica post-fascista (p. 37) — e dalla «colpevole astensione silenziosa sui crimini del comunismo internazionale» (p. 42).
Secondo Oscar Sanguinetti, direttore dell’Isiin, docente di Metodologia della Ricerca Storica all’Università Europea di Roma e autore della relazione dal titolo Il dopoguerra: l’Italia del 1948, fra la Costituente e la morte di Alcide De Gasperi (pp. 13-33), a partire dal dopoguerra, in una prospettiva tendenzialmente «sine die» (p. 17), e comunque sino alla fine degli anni 1970, operò «un governo del Cln […] dal carattere consociativo», all’insegna di una «solidarietà nazionale», «per una decisione di vertice e rimanendo per diversi anni privo di ratifica popolare» (p. 16). L’unità antifascista, paradigma del sistema politico italiano, ripresentò, sotto nuove forme, l’elitarismo risorgimentale, «ma restringendo in ogni caso il numero delle alternative politiche» (p. 17). Tuttavia tale disegno trovò un ostacolo nell’«Italia sommersa», «attendista» — il «convitato di pietra della politica nazionale» o la «maggioranza silenziosa» — che rifiutava il consociativismo dei governi del Comitato di Liberazione Nazionale (Cln) ed esplicitava i propri giudizi sui «coni d’ombra» del secondo conflitto mondiale, quali i bombardamenti delle città italiane, la crisi dell’8 settembre 1943, la «fuga» del re, gli attentati terroristici, le vendette e gli indiscriminati assassini di fascisti, la tragedia dei nostri soldati prigionieri in Urss (pp. 17-18). Il movimento dell’Uomo Qualunque diede espressione politica a questa Italia e generò l’«antimito della Resistenza» (p. 20), rifiutandosi di continuare la lotta contro un nemico, il fascismo, che oramai era stato sconfitto; il nemico attuale era il comunismo che nella mobilitazione antifascista trovava un alleato per l’affermare un’egemonia sulla società italiana. Già le elezioni per l’Assemblea Costituente del 1946 rivelarono che l’area non comunista del Paese era maggioritaria e contraria «ai nuovi miti unificanti e omologanti» (p. 21) o a un «progetto neo-identitario» (p. 19); il voto dato alla Democrazia Cristiana fu anche espressione di un anti-fascismo, ma ideologico e funzionale alla conquista del potere, come quello dei marxisti (pp. 16-21). I lavori dell’Assemblea segnarono in ogni caso una convergenza fra i socialcomunisti e la sinistra democristiana: la Carta costituzionale non fu «un patto fra la nazione e il suo organismo politico», bensì «un programma politico di lungo periodo», mai del tutto attuato, sempre asseritamene «tradito» da presunti «complotti reazionari» (pp. 22-23). In quel contesto, la sinistra democristiana, a livello politico, agì per spingere «il mondo cattolico ad una piena accettazione della legalità democratica» e non per «[…] trasfondere […] nella carta i principi della dottrina sociale della Chiesa» (p. 23).
Il «paradigma consociativo» entrò in crisi per le pressioni del governo statunitense e della Santa Sede, per il disaccordo con i comunisti sull’ordine pubblico e sulla politica sociale, ma soprattutto a causa dell’esito delle elezioni amministrative siciliane, allorché le destre ottennero il 24% dei voti. De Gasperi diede le dimissioni da Capo del governo il 13 maggio 1947. Il nuovo governo, sempre presieduto dallo statista trentino, registrò l’estromissione dei comunisti e dei socialisti, ma fu sempre espressione della stessa dottrina politica: non vennero strette alleanze con la destra e, accanto alla pregiudiziale anti-fascista, fu dato maggior spessore alla pregiudiziale anti-comunista. Ebbe così inizio il centrismo, una stagione in cui la Dc tentò di acquisire il consenso dell’«Italia sommersa». Le elezioni del 18 aprile 1948, con una possibile vittoria del Fronte popolare (pp. 24-26), potevano portare al fallimento il progetto neocentrista. Di fronte a tale pericolo, ci fu una «mobilitazione eccezionale» (p. 27) del mondo cattolico, guidata dai Comitati Civici di Luigi Gedda (1902-2000), in particolare. La vittoria dello schieramento anticomunista — che ottenne circa il 65% dei voti, di cui oltre il 48% dei suffragi alla sola Democrazia Cristiana (ibidem) — fu schiacciante. Il paese dimostrò di voler rifiutare l’«abito identitario laicista e egualitaristico» (p. 28), che era già stato confezionato per gli italiani. Il successo elettorale poteva costituire la base per il recupero «di virtù pubbliche […] e di istituti indeboliti da due secoli di Rivoluzione» (ibidem). La Dc non si fece carico di un simile impegno, così il legame col mondo cattolico e moderato si sfilacciò (p. 29). Nel 1952, in occasione delle elezioni amministrative romane, si crearono le condizioni per un’alternativa al centrismo, attraverso la cosiddetta «operazione Sturzo», che mirava ad assorbire le destre nell’area di governo e ad attenuare la centralità dei partiti. Il progetto naufragò. L’affermazione del 18 aprile 1948 si rivelò quindi una vittoria mai «indossata». Pertanto la mancata capitalizzazione della vittoria elettorale anticomunista si trasformò, paradossalmente, nel più grande successo delle sinistre nel dopoguerra (pp. 30-33).
Per Mario Casella, ordinario di Storia contemporanea all’Università di Lecce — suo il saggio La posizione dell’Azione Cattolica (pp. 45-58) —, nella Dc era diffusa «una preoccupante debolezza organizzativa e una eccessiva arrendevolezza nei confronti di socialisti e comunisti» (p. 52). Tale constatazione spinse Papa Pio XII a suggerire a Gedda — uomo di azione e di profonda spiritualità, medico e scienziato, fondatore della Società Operaia, ispirata alla sofferenza di Gesù nel Getsemani — la costituzione dei Comitati Civici, associazione di «quadri», appoggiata dall’Azione Cattolica. Anche se quest’ultima annoverava al proprio interno non poche resistenze di spicco alla costituzione dei Comitati, «tremila attivisti sciamarono in tutta Italia […] portando […] una parola di esortazione e di orientamento» (p. 57).
Giacomo de Antonellis, giornalista e saggista, nel suo contributo Un protagonista: Luigi Gedda (pp. 59-70), afferma che il successo dell’azione dei Comitati Civici derivò dall’adozione di un metodo di propaganda simile a quello dell’apparato organizzativo dei comunisti, centrato sui contatti personali e individuali e sulla costituzione dei cosiddetti «focolari» (p. 65).
Marco Invernizzi, nel saggio I Comitati Civici (pp. 71-91), evidenzia l’importanza del giornale mensile Collegamento e delle altre iniziative editoriali dei Comitati (Il cittadino, Ponteradio, che dal 1957 sarà chiamato Azione) e illustra i corsi di formazione — il primo organizzato nel 1951 fu dedicato al presidente cattolico dell’Ecuador Gabriel Garcia Moreno (1821-1875) fatto assassinare dai massoni (p. 79) —, che si svolsero, fino al 1972, presso la casa per ritiri a Casale Corte Cerro, appositamente creata da Gedda in provincia di Novara. Furono circa cinquemila gli attivisti nazionali che, dopo il 18 aprile, frequentarono la casa. I Comitati Civici, a partire dalla segreteria di Amintore Fanfani (1908-1999), furono emarginati dalla Dc. La sconfitta del loro disegno politico — determinata dal mancato appoggio della Dc e dei vertici dell’Azione Cattolica all’«operazione Sturzo» e dall’insuccesso della cosiddetta «legge truffa» alle elezioni del 1953 — ne ridimensionò l’influenza interna al partito, fino al «silenziamento» — così si espresse Gedda medesimo — definitivo che avverrà negli anni 1980 (pp. 82-89).
Il corrispondente dell’Isiin da Roma Giuseppe Brienza, nella sua relazione Mons. Roberto Ronca e Civiltà Italica (pp. 93-120), descrive il ruolo svolto dall’associazione Civiltà Italica e dal suo fondatore mons. Roberto Ronca (1901-1977) ai fini della vittoria elettorale delle forze anticomuniste. Mons. Ronca fu nominato arcivescovo proprio per «la meritoria attività da lui svolta» e la «vittoria delle difficilissime elezioni del 1948» (p. 94) e Civiltà Italica fu creata per sopperire alle «carenze culturali ed organizzative della DC» (p. 95) e in parallelo a un’iniziativa che allora animava la rivista dei gesuiti La Civiltà Cattolica (p. 96). Mons. Ronca sosteneva la necessità del pluralismo circa la rappresentatività dei cattolici in politica. Ciò determinerà l’ostilità dell’Azione Cattolica, che propugnava un «partito forte», la Dc (p. 107). Civiltà Italica sosteneva invece la necessità di un semplice «coordinamento delle iniziative di difesa degli interessi della Chiesa, nonché dei vari cattolici militanti nei diversi partiti» (p. 109). Si trattò di un impegno anticomunista ben studiato ed efficace: analisi e confutazione delle dottrine marxiste, critica, puntuale ed efficace, alle esperienze sovietiche; molto curata la propaganda, svolta con mezzi di diffusione originali per i tempi: manifesti, volantini, agenzie, striscioni, distintivi, filmati (pp. 110-116). La linea sostanzialmente antidemocristiana e l’ostilità dell’Azione Cattolica — in un Pro-memoria di Civiltà Italica si poteva leggere: «[…] anche i partiti di destra possono giovare molto all’Italia e […] gli iscritti all’Azione Cattolica possono aderire ad essi» (p.120) — ne causarono il declino (pp.117-120)
Sandro Rogari, preside della facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Firenze, e Ugo Finetti, giornalista, scrittore e capo-redattore alla Rai, direttore di Critica Sociale, rispettivamente con i saggi Il mondo azionista (pp. 121-127) e La posizione dei socialisti riformisti (pp. 129-146), espongono le vicende interne e le posizioni degli azionisti e dei socialisti. Nello schieramento socialista la consultazione elettorale del 18 aprile alimentò ulteriormente la divisione fra riformisti e massimalisti, fra Giuseppe Saragat (1898-1988) e Pietro Nenni (1891-1980). Nel campo azionista — schieramento già uscito frantumato dal congresso del 1946 e poi confluito dal 1947 nel Psi —, i protagonisti fecero delle scelte in coerenza con la politica nazionale dei singoli gruppi, schierandosi apertamente o con il Fronte Popolare o auspicando la costituzione di una «terza forza», mancando loro un’«adeguata percezione della politica estera». Ugo La Malfa (1903-1979), scegliendo di appoggiare De Gasperi, costituì un’eccezione (pp. 125-127).
In occasione della consultazione del 18 aprile, nel mondo cattolico milanese emerge lo zelo pastorale del cardinale benedettino Ildefonso Schuster (1880-1954), la cui figura è delineata nella corposa ricerca L’azione pastorale del beato card. Ildefonso Schuster (pp. 149-218) svolta da mons. Ennio Apeciti, docente di Storia della Chiesa nel Seminario diocesano di Vengono. Il cardinale, in un’omelia per il Natale del 1945, condannò le «false ideologie» (p. 150) del comunismo, del nazismo, della statolatria e del laicismo e, respingendo una critica rivoltagli dai comunisti, nell’anno successivo, sottolineò che non era possibile seguire Gesù Cristo e Marx nello stesso tempo (p. 153). Nel discorso della prima domenica d’Avvento del 1947, il presule mise in guardia i fedeli contro «il piano prestabilito di rivoluzione» per «rendere l’Italia un satellite di più attorno al radioso sole moscovita» (p. 179). Schuster, oltre a essere presente con i suoi richiami dottrinali, spronò le parrocchie e le associazioni diocesane a opere di concreta solidarietà a favore della Pontificia Commissione Assistenza, togliendo così «ai comunisti motivi per raccogliere il consenso dei poveri, dei lavoratori, della gente semplice e operosa» (p. 188). Durante la campagna elettorale, polemizzò con il segretario del Partito Comunista Italiano Palmiro Togliatti (1893-1964), che aveva accusato il cardinale di possedere il 10% delle azioni di una società idroelettrica. Le documentazioni prodotte dalla curia milanese resero noto che le azioni, peraltro di proprietà della diocesi e non del cardinale, ammontavano solo allo «0,25 per mille»; inoltre la metà delle stesse erano impegnate per la costruzione di nuove chiese. A nemmeno un mese dalle elezioni del 18 aprile, in occasione della Pasqua del 1948, Schuster condannò la forma di Stato dei regimi comunisti, perché dove lo Stato è unico padrone «[…] si è irreggimentato un immenso popolo di nulla tenenti, forzati a lavorare per il governo» (p. 207). I parroci di Milano, animati dal loro vescovo, in un Appello «alle cento parrocchie di Milano», datato 14 aprile, ammonirono: «Un tratto di matita segnerà se vorrete essere con Cristo o contro Cristo. Temete di essere contro di lui» (pp. 209-210). Dopo la schiacciante vittoria della Dc, il cardinale annunciò che «[…] il Signore [aveva] fatto risplendere sulla Patria» il «sole» (p. 212).
Daniele Bardelli, docente di Storia Contemporanea e Storia dello Sport all’Università Cattolica del Sacro Cuore, nel suo saggio L’Ambrosianeum (pp. 219-240), espone l’azione culturale svolta da uomini «molto diversi per indole e cultura», come Enrico Falck (1899-1953), monsignor Ernesto Pisoni (1920-1993) e Giuseppe Lazzati (1909-1986), che si unirono nella fondazione del centro culturale dell’Ambrosianeum per rispondere alle necessità della ricostruzione. Per costoro bisognava anzitutto partire da una ricostruzione spirituale (p. 221), perché il comunismo andava combattuto «[…] mostrando la più fondata ragionevolezza del cristianesimo, e non solo eliminando le ragioni materiali di malcontento che lo facevano prosperare» (p. 222).
Giovanni Gregorini, ricercatore di Storia Economica all’Università Cattolica del Sacro Cuore, nello studio L’imprenditoria cattolica milanese (pp. 241-262), evidenzia l’apporto dato dall’Unione Cristiana Imprenditori e Dirigenti (Ucid) alla vittoria del 18 aprile. L’Ucid, con «un limitato intervento diretto nella preparazione degli eventi politici» (p. 250), seppe trattare, in pubblici incontri o fra la cerchia degli associati, i temi economico-sociali — e tra questi la difesa della dignità umana nel contesto lavorativo —, con un costante riferimento ai valori morali, ai principi enunciati nella enciclica di Leone XIII sulla dottrina sociale cristiana Rerum novarum e al magistero di Pio XII.
Maria Bocci, docente di Storia Contemporanea all’Università Cattolica del Sacro Cuore, ne La mobilitazione della cultura: il caso dell’Università Cattolica (pp. 263-309), presenta la figura di padre Agostino Gemelli OFM (1878-1959), rettore dell’ateneo cattolico, il quale, durante la campagna per le elezioni del 18 aprile, fu il promotore di una «controffensiva organizzata» (p. 265) per liberare l’Italia dall’«ipoteca comunista» e «per unificare governo e popolo» (p. 266). La Cattolica fu protagonista di un’intensa azione culturale e politica volta a contrastare l’elitarismo politico che, ancora presente nella «prospettiva democratica e azionista» (p. 264), aveva già segnato la storia del Paese dall’unità al ventennio fascista; concezione elitaria che era finalizzata a «costruire l’italiano nuovo della modernità» (p. 263) e delle rivoluzioni. Era una battaglia, quella voluta da padre Gemelli, per ridare luce alla vera storia d’Italia, che «[…] è storia di un paese cattolico […] storia di un popolo […] di tanti individui che credono» (p. 266).
Infine, Luca Ceriotti, ricercatore di Storia Moderna e Contemporanea all’Università Cattolica del Sacro Cuore, nel saggio «Un Piave di riserva». I monarchici milanesi di fronte al 18 aprile (pp. 311-353), espone le posizioni dei vari gruppi filo-monarchici milanesi. Si trattava di un «affollato microcosmo» di organizzazioni, a volte indipendenti, ora schierate o associate con formazioni partitiche, raggruppate nel Blocco Nazionale Monarchico, con il nome di lista «Stella e Corona» (p. 317). L’avvocato Cesare Degli Occhi (1893-1971), «uomo pervicacemente indipendente», già democristiano, e comunque favorevole alla collaborazione con gli ex-compagni di partito, ne fu la figura più rappresentativa. Il Partito Nazionale del Lavoro, già Partito Socialista Cattolico Monarchico, dissociandosi dall’orientamento allora generale in campo monarchico, strinse accordi con «la componente legittimista dei missini»; fra questi ultimi l’elemento di maggior spicco era Giuseppe Menotti De Francesco (1885-1978), rettore dell’Università statale di Milano (pp. 317-318). Enzo Selvaggi, dell’ex Partito Democratico Italiano, fu alla guida del gruppo «più organicamente radicato»; attraverso il quotidiano Il mattino d’Italia, in alcuni editoriali Selvaggi presentò «una notevole apertura di credito nei riguardi della Democrazia Cristiana» (p. 320). La pregiudiziale antifascista e la preferenza verso gli interlocutori del Partito Liberale e della Dc caratterizzavano la posizione politica di quasi tutti i raggruppamenti (p. 324). In ogni caso la campagna elettorale fu centrata sul «bene della patria, al di sopra di ogni convincimento costituzionale», nella convinzione che «Perfettamente cattolico e certamente democratico sarebbe stato il voto […] dato al Blocco Monarchico» (p. 346). La vittoria del 18 aprile fu la vittoria del «popolo italiano […] un popolo eccezionale», che «[…] ha sempre un Piave di riserva» (p. 352).
Nel volume il successo del mondo cattolico nelle elezioni del 18 aprile 1948 è presentato attraverso un’analisi socio-politica di rilevante spessore culturale — emerge chiaro il ruolo dei protagonisti: lavoratori, imprenditori, gerarchie ecclesiastiche, intellettuali, politici con i loro organismi rappresentativi —, senza tralasciare di illustrare le posizioni di altre forze politiche. Affiora dalla lettura lo spaccato di un’Italia popolare, unita dalla tradizione religiosa, docile alle direttive dei pastori, spronata da un laicato militante che, di fronte alla drammaticità della scelta che s’imponeva — o con l’Occidente o con l’Urss —, seppe felicemente coniugare fede e cultura, lasciando alle future generazioni un segno coerenza, un esempio di vita.