A
L’unificazione politica italiana, sancita nel 1861 con la proclamazione
del Regno d’Italia, ha lasciato nell’ombra la memoria
ngelantonio Spagnoletti, docente prima di Storia degli Antichi
Stati Italiani poi di Storia Moderna presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bari,
ha indirizzato inizialmente la sua
attività di ricerca allo studio dei ceti dirigenti delle «Università» del Regno
di Napoli fra i secoli XVI e XVIII, con attenzione particolare ai patriziati
delle città demaniali pugliesi. L’interesse nutrito per la storia dei patriziati
urbani lo ha condotto ad occuparsi dell’Ordine dei Cavalieri di San Giovanni di
Gerusalemme, poi Ordine di Malta, che nei secoli dell’età moderna ha
rappresentato più di altre istituzioni il luogo di raccordo delle élite
nobiliari cittadine nell’area italiana ,
mentre gli studi sulla «monarchia amministrativa» napoleonica e borbonica nei
primi decenni dell’Ottocento napoletano sono culminati in una monografia sul
Regno delle Due Sicilie, dove si guarda alle vicende del reame come a quelle «di
un “antico stato”, ovvero di una delle numerose e plurisecolari formazioni territoriali
italiane»
e non si considera più «l’Italia del XVIII secolo come una realtà “in attesa”
della rivoluzione francese o del Risorgimento» .
Nell’ambito del dibattito sui rapporti fra gli Stati
italiani e la Corona di Spagna ha ricostruito le forme della presenza ispanica
nella Penisola e l’articolazione del potere nell’Italia della prima età
moderna, soffermandosi sulla dimensione soprannazionale della nobiltà feudale,
ancorata a un sistema di legami e di lealismi che trascendeva i confini dei
singoli Stati .
Sullo sfondo della pax hispanica, che nei secoli XVI e XVII assicura all’Italia
un lungo periodo di quiete e di stabilità, ha quindi delineato la storia delle
dinastie italiane e dei loro rappresentanti più significativi, descrivendo il
consolidamento di un concerto peninsulare basato sulla pluralità degli Stati
che, tranne poche e piccole eccezioni, sarà il medesimo fino all’inizio del
secolo XVIII, e confermando l’immagine di un sistema dinastico largamente
unitario, nonostante il pluralismo territoriale e istituzionale che connotava la Penisola .
Dallo studio delle élite e delle realtà locali,
quindi del Regno delle Due Sicilie e degli Stati italiani, Spagnoletti è approdato
quasi naturalmente all’Europa con il suo lavoro più recente, Il mondo
moderno ,
definito come un «manuale di storia moderna» (p. 9) e, soprattutto, un
manuale di storia europea.
La ricostruzione storica va di pari passo con le esplicazioni
terminologiche che Spagnoletti, consapevole che i significati delle parole
cambiano con il tempo e definiscono concetti diversi o presentano intonazioni
oggi scomparse, ritiene necessarie. Così il lemma monarchia indicava,
specie nel Medioevo, una situazione ideale in base alla quale una potenza dominava
la Cristianità e si serviva della sua forza per imporre la pace; la corona
rappresentava non solo un oggetto, simbolo di un potere che tendeva a
spersonalizzarsi, ma anche un’entità che per i giuristi era distinta dalla
persona fisica del re e a lui superiore, indicando la famiglia reale, la
dignità del sovrano e il corpo politico del Paese; il sostantivo Stato
solo lentamente ha assunto il significato odierno, in quanto nell’età medievale
indicava la condizione di persone o di gruppi e in sua vece era utilizzato il
lemma regno per le formazioni politiche a base monarchica e signoria
in quelle a base repubblicana; la nazione indicava prima l’estrazione
familiare o sociale, poi una comunità culturale e storica, la quale non presupponeva
necessariamente la presenza di uno Stato coincidente con la nazione stessa, e
l’Europa era percepita alla fine del Medio Evo come unità culturale, a dispetto
del policentrismo e del particolarismo politico che la contraddistinguevano, e
comprendeva dunque anche «le nuove Europe che stavano nascendo oltremare»
(p. 19) per effetto della conquista e della civilizzazione del Nuovo Mondo.
Spagnoletti descrive la realtà composita delle formazioni
territoriali dell’Antico Regime, caratterizzate dalla presenza di giurisdizioni
differenti, dalla leggerezza degli apparati istituzionali centrali e
dall’assenza di frontiere ben delimitate. Se le guerre dei secoli XVI e XVII
favoriscono la nascita dello Stato «moderno» — con il rafforzamento dell’autorità
monarchica a scapito delle aristocrazie, la creazione di eserciti permanenti e
apparati burocratici e diplomatici, un sistema fiscale capace di drenare
risorse dalle periferie al centro —, il vigore dei particolarismi territoriali
e di ceto, i patti stipulati con le comunità del regno, il riconoscimento delle
funzioni delle élite locali, le leggi divine, naturali e fondamentali
del regno costituiscono un limite al potere «assoluto» del sovrano. Allo ius
commune — diritto canonico e diritto romano —, che costituiva il diritto
vigente nella Respublica christiana medioevale, si affianca lo ius
proprium, cioè la legislazione delle singole realtà territoriali, gli statuti
delle città, il diritto dei ceti, delle corporazioni e dei gruppi, che godevano
anche di istanze giudiziarie intermedie e di capacità arbitrale. «In questo
modo non soltanto i titolari di diritti particolari, ma anche patroni, fazioni,
famiglie e gruppi di interesse conservano la loro legittimità a esercitare
funzioni pubbliche che ricadevano nell’ambito giudiziario, evidenziando, così,
la specificità delle strutture politiche dell’antico regime, la loro articolazione
e pluralità non riconducibili esclusivamente alla categoria del potere statale»
(p. 139). Il processo di centralizzazione non sarà indolore e indurrà le élite
a insorgere in difesa della propria identità storica e culturale e gli strati
più umili della popolazione a reagire contro il fiscalismo crescente. Le
rivolte, soprattutto nel secolo XVII, generalmente non erano «[…] contro
i signori, rifuggivano da motivazioni religiose e miravano a difendere le antiche
consuetudini di fronte a provvedimenti legislativi eversivi o all’intrusione
nella vita delle comunità di nuovi soggetti che, acquistando terre, mutavano
consolidati equilibri» (p. 166).
La narrazione storica vera e propria ha inizio con il
lungo regno di Carlo V d’Asburgo (1500-1558), i cui titoli — «re dei reami
iberici e di quelli italiani, duca di Milano, signore dei Paesi Bassi e del
Nuovo Mondo e imperatore del Sacro Romano Impero» (p. 60) — mostrano come e
quanto, ancora all’inizio del secolo XVI, fosse secondaria la conformità della
nazionalità del sovrano a quella del suo popolo, come ciò non comportasse
particolari problemi per quel che riguardava la lealtà dei sudditi nei suoi
confronti, a condizione che il sovrano rispettasse le leggi e i privilegi della
comunità; anche i territori del Nuovo Mondo, organizzati in regni, non vengono
considerati colonie, bensì parte integrante della Castiglia e della Corona
asburgica.
L’idea d’impero orienta a lungo l’attività di governo di
Carlo, ma la volontà di regolare le vicende dell’Europa e di dare a essa un
profilo unitario si scontra con la disgregazione della Respublica christiana
e con il processo di formazione di un sistema di Stati, ciascuno dei quali
retto da un sovrano che poteva definirsi imperatore nel suo regno. Il sovrano assiste
anche alla frantumazione dell’unità religiosa della Cristianità, che faceva
venire meno il principio dell’uniformità religiosa all’interno dell’Impero e
favoriva il rafforzamento dei principi territoriali grazie all’incameramento
dei beni della Chiesa cattolica e all’istituzione di Chiese nazionali sotto il
controllo dei singolo sovrani.
Spagnoletti sopravvaluta alquanto la portata del movimento
«riformatore» in Italia e giunge a conclusioni non del tutto condivisibili
sulla Contro-Riforma cattolica, laddove ritiene che «la società cristiana,
grazie a questa tenace opera di disciplinamento che tendeva a garantire un
comportamento uniforme dei fedeli, perse pro-gressivamente la sua dimensione comunitaria
e si frantumò in un insieme di individui sui quali si esercitava la benevola
capacità di mediazione con la divinità dei ministri del culto» (p. 99); e
inoltre: «al grande dibattito individuale del primo Cinquecento si sostituì
una cappa confessionale che non ammetteva più forme di espressione del pensiero
in contrasto con le nuove e più rigide disposizioni in materia di fede» (p.
101).
A Carlo V segue il figlio Filippo II d’Asburgo
(1527-1598), «[...] il personaggio attraverso cui si possono
legittimamente leggere le vicende di quasi tutta l’Europa della seconda metà
del Cinquecento» (p. 89). Animato da una concezione etica dell’azione
politica — che gli impediva di condurre guerre offensive, se non contro gli
eretici e gli infedeli — il sovrano iberico favorisce lo sviluppo della Riforma
cattolica, difende la Cristianità contro i turchi e garantisce un lungo
periodo di pace alla penisola italiana, dove si creano forme di solidarietà fra
gli Stati e le loro élite di governo, si cementa un’unione che non si
esprimeva in termini politici e cresce la consapevolezza di appartenere a uno
spazio unitario guidato principalmente dalla Spagna e dai pontefici romani.
Persegue anche l’obbiettivo dell’uniformità religiosa nei diversi Stati,
risolvendo drasticamente — con l’espulsione del 1609 — i rapporti con la
minoranza islamica nella penisola iberica, i moriscos, che «[...]
guardavano con favore alla marcia dell’impero turco verso occidente, sperando
che il sultano invadesse la Spagna e li liberasse» (p. 104).
La Guerra dei Trent’anni (1618-1648) produce la crisi
delle «monarchie composite»
e accelera la decadenza politica della Spagna che, sebbene vivesse nel campo
delle arti e della cultura il suo «secolo d’oro», a causa di difficoltà
economiche non riesce a dispiegare sui campi di battaglia tutto il potenziale
militare di cui dispone. Invece, il ramo collaterale della Casa d’Asburgo, che
esprimeva l’imperatore del Sacro Romano Impero e governava sugli stati
patrimoniali della famiglia — quelli che definiamo Austria —, sulla Boemia e
sulla porzione di Ungheria non sottoposta al dominio turco, riesce a costruire
una realtà istituzionale dotata di un sistema fiscale e di un’organizzazione
all’avanguardia, che diventa il bastione della Riforma cattolica nei territori
germanici.
«La pace di Vestfalia riveste un’importanza
straordinaria nella storia europea: essa segnò la fine dei conflitti e degli
schieramenti di religione (la Francia cattolica si era alleata con la Svezia e i principati tedeschi protestanti) e la secolarizzazione delle relazioni internazionali
che si sarebbero basate sugli interessi di Stato piuttosto che su quelli
confessionali» (p. 163). Il secolo XVI, tuttavia, non è un periodo di crisi
generale, di fanatismo e di formalismo, come si è ritenuto a lungo, ma di
ristrutturazioni e di trasformazioni in parti significative della società e
dell’economia europee. Non mancano guerre, carestie, epidemie e intemperanze
climatiche, che crearono un clima di generale insicurezza, propizio anche allo
scatenarsi della caccia alle streghe, fenomeno piuttosto marginale «[...]
ove erano all’opera l’Inquisizione romana e quella spagnola [...] preferendosi
scindere il nesso eresia-strgoneria che altrove stava portando al rogo migliaia
di donne» (pp. 178-179). Il secolo XVI è «[...] è anche l’età del
barocco (l’età barocca), e se il termine crisi evoca immediatamente
situazioni di difficoltà, di penuria, di regresso, il vocabolo barocco
ci richiama situazioni e questioni di tutt’altro segno. [...] Il barocco
è stato una grande espressione della cultura, in grado di spaziare da Monaco a
Cracovia, da Roma a Lisbona, da Vienna a Bruxelles, da Città di Messico a
Macao, e l’età che da esso ha preso il nome è segnata certamente dalla grande
crisi generale, ma anche dalle diverse risposte che a essa ogni paese diede»
(pp. 196-197).
Alla pace di Westfalia segue la pace dei Pirenei, del
1659, che segna la fine dell’egemonia spagnola in Europa e l’inizio di quel
lungo periodo di tempo conosciuto come il secolo del re Luigi XIV di Borbone
(1638-1714), caratterizzato dalla politica aggressiva del Regno di Francia, ma
anche dall’affermazione dell’Olanda, dal protagonismo marittimo dell’Inghilterra
— dal 1707 Regno Unito di Gran Bretagna, potenza militare ormai impegnata pienamente
nella politica europea — e dalla ripresa delle fortune del ramo austriaco della
Casa d’Asburgo, «[…] circonfuso di gloria per aver riportato la croce
in territori fino ad allora dominati dalla mezzaluna» (p. 200) dopo la
vittoria di Vienna nel 1683 e l’inizio di una marcia trionfale nei Balcani.
Negli anni di Luigi XIV la Francia raggiunge il suo apogeo nelle arti, nelle
lettere, nelle scienze, nella potenza militare e negli ordinamenti statali. Il
re incrementa il potere della monarchia grazie anche a un processo di
disciplinamento della nobiltà che, «[...] pur senza perdere le
ragioni della sua preminenza sociale, si trasformò in un ceto di cortigiani»
(p. 204); sottopone le province a un controllo più stretto tramite l’azione
degli intendenti ed entra in conflitto con la Chiesa cattolica, di cui intende limitare le prerogative, facendo del suo regno il modello dello Stato
assolutistico.
Le Guerre di Successione, dal 1701 al 1748, e la Guerra dei Sette Anni (1756-1763) segnano il secolo XVIII, determinando per la Spagna un cambio dinastico — dalla Casa d’Asburgo a quella di Borbone — e la perdita di tutti
i territori in Europa, passati in gran parte alla Casa d’Austria, per la Francia l’abbandono di molti possedimenti coloniali a vantaggio della Gran Bretagna, che
diventava la garante dell’equilibrio europeo e la prima potenza navale
mondiale. Anche il XVIII, dunque, è un secolo di guerre e di violenze, però
mascherate «[...] sotto una patina di civiltà che i conflitti del
Seicento non avevano» (p. 228); è più noto, invece, come il «Settecento
riformatore», un’epoca in cui i sovrani, coadiuvati da ministri e da uomini di
cultura, tentano di mutare gli assetti politici, economici e sociali delle
proprie realtà territoriali al fine di accentuare il controllo statale
dell’assistenza e dell’istruzione, stabilire il monopolio su matrimonio,
famiglia ed educazione, garantire allo Stato maggiori introiti fiscali. «L’assolutismo
illuminato (o dispotismo illuminato) che fu praticato dai monarchi era il
frutto di una visione astratta e intellettualistica delle esigenze dei sudditi
e dello Stato. Il livellamento dei particolarismi, la soppressione dei
tradizionali istituti assistenziali, il libero corso consentito allo sviluppo
del mercato (che generalmente significava aumento dei prezzi o penuria dei beni
alimentari, venduti sulle piazze che offrivano un prezzo più alto), la polemica
contro le istituzioni ecclesiastiche e contro i culti ritenuti frutto della
superstizione provocarono l’ostilità della nobiltà, della Chiesa e delle masse
popolari» (pp. 229-230).
I sovrani favoriscono la lotta alla Chiesa cattolica e non
ostacolano il processo di desacralizzazione della società, senza immaginare «[...]
che, con la società, si desacralizzava il proprio potere, né che potessero
diventare più vulnerabili di fronte ai loro sudditi» (p. 261). In questo
modo aprono la strada alla Rivoluzione del 1789, che viene descritta
nell’ultimo capitolo del libro come «[...] un blocco unitario, non
una serie di rivoluzioni, alcune delle quali più legittime delle altre a
seconda delle convinzioni ideologiche o culturali degli osservatori coevi o
degli storici» (p. 272). Di essa Spagnoletti racconta le fasi salienti, le
resistenze interne — sia «la vera e propria controrivoluzione di ispirazione
monarchica» (p. 279) in Vandea, sia la reazione federalista in Provenza e
in alcune città del Nord contro l’accentramento rivoluzionario — e la feroce
repressione. L’esportazione della Rivoluzione in Europa si accompagna a una
dura politica di spoliazione dei territori occupati, che priva gli eserciti
repubblicani di ogni simpatia e suscita violente insorgenze. Spagnoletti
enfatizza la «[...] crudele repressione che portò al massacro di
tutta la classe politica repubblicana» (p. 289) a opera dell’esercito
realista della Santa Fede del 1799, osservando tuttavia che «le insorgenze
(se ne ebbero in tutta Italia) testimoniano [...] il forte disagio di
ampie masse della popolazione nei confronti di ordinamenti imposti da una
potenza straniera e l’esigenza di difendere un senso di appartenenza nazionale
fondato sul mantenimento dei valori tradizionali» (p. 290). Anche Napoleone
Bonaparte (1769-1821), imperatore francese dal 1804, sperimenta le resistenze
europee, «[...] che in molte località si configurarono come vere e
proprie guerre di popolo» (p. 295), dalla Calabria al Tirolo, dalla Spagna
alla Russia.
L’esperienza napoleonica lascerà in eredità all’Europa non
solo il «grande processo di modernizzazione della società» (pp. 295-296)
ma anche la nascita di un sentimento nazionale avverso agli ideali
supernazionali diffusi fino ad allora, che produrrà un ulteriore rimescolamento
ideologico e politico e aprirà la strada alle grandi catastrofi del secolo XX.