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RECENSIONI



Angelantonio Spagnoletti, Il mondo moderno, il Mulino, Bologna 2005, pp. 320.




A L’unificazione politica italiana, sancita nel 1861 con la proclamazione del Regno d’Italia, ha lasciato nell’ombra la memoria

ngelantonio Spagnoletti, docente prima di Storia degli Antichi Stati Italiani poi di Storia Moderna presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bari, ha indirizzato inizialmente la sua attività di ricerca allo studio dei ceti dirigenti delle «Università» del Regno di Napoli fra i secoli XVI e XVIII, con attenzione particolare ai patriziati delle città demaniali pugliesi. L’interesse nutrito per la storia dei patriziati urbani lo ha condotto ad occuparsi dell’Ordine dei Cavalieri di San Giovanni di Gerusalemme, poi Ordine di Malta, che nei secoli dell’età moderna ha rappresentato più di altre istituzioni il luogo di raccordo delle élite nobiliari cittadine nell’area italiana [1], mentre gli studi sulla «monarchia amministrativa» napoleonica e borbonica nei primi decenni dell’Ottocento napoletano sono culminati in una monografia sul Regno delle Due Sicilie, dove si guarda alle vicende del reame come a quelle «di un “antico stato”, ovvero di una delle numerose e plurisecolari formazioni territoriali italiane» [2] e non si considera più «l’Italia del XVIII secolo come una realtà “in attesa” della rivoluzione francese o del Risorgimento» [3].

Nell’ambito del dibattito sui rapporti fra gli Stati italiani e la Corona di Spagna ha ricostruito le forme della presenza ispanica nella Penisola e l’articolazione del potere nell’Italia della prima età moderna, soffermandosi sulla dimensione soprannazionale della nobiltà feudale, ancorata a un sistema di legami e di lealismi che trascendeva i confini dei singoli Stati [4]. Sullo sfondo della pax hispanica, che nei secoli XVI e XVII assicura all’Italia un lungo periodo di quiete e di stabilità, ha quindi delineato la storia delle dinastie italiane e dei loro rappresentanti più significativi, descrivendo il consolidamento di un concerto peninsulare basato sulla pluralità degli Stati che, tranne poche e piccole eccezioni, sarà il medesimo fino all’inizio del secolo XVIII, e confermando l’immagine di un sistema dinastico largamente unitario, nonostante il pluralismo territoriale e istituzionale che connotava la Penisola [5].

Dallo studio delle élite e delle realtà locali, quindi del Regno delle Due Sicilie e degli Stati italiani, Spagnoletti è approdato quasi naturalmente all’Europa con il suo lavoro più recente, Il mondo moderno [6], definito come un «manuale di storia moderna» (p. 9) e, soprattutto, un manuale di storia europea.

 

La ricostruzione storica va di pari passo con le esplicazioni terminologiche che Spagnoletti, consapevole che i significati delle parole cambiano con il tempo e definiscono concetti diversi o presentano intonazioni oggi scomparse, ritiene necessarie. Così il lemma monarchia indicava, specie nel Medioevo, una situazione ideale in base alla quale una potenza dominava la Cristianità e si serviva della sua forza per imporre la pace; la corona rappresentava non solo un oggetto, simbolo di un potere che tendeva a spersonalizzarsi, ma anche un’entità che per i giuristi era distinta dalla persona fisica del re e a lui superiore, indicando la famiglia reale, la dignità del sovrano e il corpo politico del Paese; il sostantivo Stato solo lentamente ha assunto il significato odierno, in quanto nell’età medievale indicava la condizione di persone o di gruppi e in sua vece era utilizzato il lemma regno per le formazioni politiche a base monarchica e signoria in quelle a base repubblicana; la nazione indicava prima l’estrazione familiare o sociale, poi una comunità culturale e storica, la quale non presupponeva necessariamente la presenza di uno Stato coincidente con la nazione stessa, e l’Europa era percepita alla fine del Medio Evo come unità culturale, a dispetto del policentrismo e del particolarismo politico che la contraddistinguevano, e comprendeva dunque anche «le nuove Europe che stavano nascendo oltremare» (p. 19) per effetto della conquista e della civilizzazione del Nuovo Mondo.

Spagnoletti descrive la realtà composita delle formazioni territoriali dell’Antico Regime, caratterizzate dalla presenza di giurisdizioni differenti, dalla leggerezza degli apparati istituzionali centrali e dall’assenza di frontiere ben delimitate. Se le guerre dei secoli XVI e XVII favoriscono la nascita dello Stato «moderno» — con il rafforzamento dell’autorità monarchica a scapito delle aristocrazie, la creazione di eserciti permanenti e apparati burocratici e diplomatici, un sistema fiscale capace di drenare risorse dalle periferie al centro —, il vigore dei particolarismi territoriali e di ceto, i patti stipulati con le comunità del regno, il riconoscimento delle funzioni delle élite locali, le leggi divine, naturali e fondamentali del regno costituiscono un limite al potere «assoluto» del sovrano. Allo ius commune — diritto canonico e diritto romano —, che costituiva il diritto vigente nella Respublica christiana medioevale, si affianca lo ius proprium, cioè la legislazione delle singole realtà territoriali, gli statuti delle città, il diritto dei ceti, delle corporazioni e dei gruppi, che godevano anche di istanze giudiziarie intermedie e di capacità arbitrale. «In questo modo non soltanto i titolari di diritti particolari, ma anche patroni, fazioni, famiglie e gruppi di interesse conservano la loro legittimità a esercitare funzioni pubbliche che ricadevano nell’ambito giudiziario, evidenziando, così, la specificità delle strutture politiche dell’antico regime, la loro articolazione e pluralità non riconducibili esclusivamente alla categoria del potere statale» (p. 139). Il processo di centralizzazione non sarà indolore e indurrà le élite a insorgere in difesa della propria identità storica e culturale e gli strati più umili della popolazione a reagire contro il fiscalismo crescente. Le rivolte, soprattutto nel secolo XVII, generalmente non erano «[…] contro i signori, rifuggivano da motivazioni religiose e miravano a difendere le antiche consuetudini di fronte a provvedimenti legislativi eversivi o all’intrusione nella vita delle comunità di nuovi soggetti che, acquistando terre, mutavano consolidati equilibri» (p. 166).

 

La narrazione storica vera e propria ha inizio con il lungo regno di Carlo V d’Asburgo (1500-1558), i cui titoli — «re dei reami iberici e di quelli italiani, duca di Milano, signore dei Paesi Bassi e del Nuovo Mondo e imperatore del Sacro Romano Impero» (p. 60) — mostrano come e quanto, ancora all’inizio del secolo XVI, fosse secondaria la conformità della nazionalità del sovrano a quella del suo popolo, come ciò non comportasse particolari problemi per quel che riguardava la lealtà dei sudditi nei suoi confronti, a condizione che il sovrano rispettasse le leggi e i privilegi della comunità; anche i territori del Nuovo Mondo, organizzati in regni, non vengono considerati colonie, bensì parte integrante della Castiglia e della Corona asburgica.

L’idea d’impero orienta a lungo l’attività di governo di Carlo, ma la volontà di regolare le vicende dell’Europa e di dare a essa un profilo unitario si scontra con la disgregazione della Respublica christiana e con il processo di formazione di un sistema di Stati, ciascuno dei quali retto da un sovrano che poteva definirsi imperatore nel suo regno. Il sovrano assiste anche alla frantumazione dell’unità religiosa della Cristianità, che faceva venire meno il principio dell’uniformità religiosa all’interno dell’Impero e favoriva il rafforzamento dei principi territoriali grazie all’incameramento dei beni della Chiesa cattolica e all’istituzione di Chiese nazionali sotto il controllo dei singolo sovrani.

Spagnoletti sopravvaluta alquanto la portata del movimento «riformatore» in Italia e giunge a conclusioni non del tutto condivisibili sulla Contro-Riforma cattolica, laddove ritiene che «la società cristiana, grazie a questa tenace opera di disciplinamento che tendeva a garantire un comportamento uniforme dei fedeli, perse pro-gressivamente la sua dimensione comunitaria e si frantumò in un insieme di individui sui quali si esercitava la benevola capacità di mediazione con la divinità dei ministri del culto» (p. 99); e inoltre: «al grande dibattito individuale del primo Cinquecento si sostituì una cappa confessionale che non ammetteva più forme di espressione del pensiero in contrasto con le nuove e più rigide disposizioni in materia di fede» (p. 101).

A Carlo V segue il figlio Filippo II d’Asburgo (1527-1598), «[...] il personaggio attraverso cui si possono legittimamente leggere le vicende di quasi tutta l’Europa della seconda metà del Cinquecento» (p. 89). Animato da una concezione etica dell’azione politica — che gli impediva di condurre guerre offensive, se non contro gli eretici e gli infedeli — il sovrano iberico favorisce lo sviluppo della Riforma cattolica, difende la Cristianità contro i turchi e  garantisce un lungo periodo di pace alla penisola italiana, dove si creano forme di solidarietà fra gli Stati e le loro élite di governo, si cementa un’unione che non si esprimeva in termini politici e cresce la consapevolezza di appartenere a uno spazio unitario guidato principalmente dalla Spagna e dai pontefici romani. Persegue anche l’obbiettivo dell’uniformità religiosa nei diversi Stati, risolvendo drasticamente — con l’espulsione del 1609 — i rapporti con la minoranza islamica nella penisola iberica, i moriscos, che «[...] guardavano con favore alla marcia dell’impero turco verso occidente, sperando che il sultano invadesse la Spagna e li liberasse» (p. 104).

La Guerra dei Trent’anni (1618-1648) produce la crisi delle «monarchie composite» [7] e accelera la decadenza politica della Spagna che, sebbene vivesse nel campo delle arti e della cultura il suo «secolo d’oro», a causa di difficoltà economiche non riesce a dispiegare sui campi di battaglia tutto il potenziale militare di cui dispone. Invece, il ramo collaterale della Casa d’Asburgo, che esprimeva l’imperatore del Sacro Romano Impero e governava sugli stati patrimoniali della famiglia — quelli che definiamo Austria —, sulla Boemia e sulla porzione di Ungheria non sottoposta al dominio turco, riesce a costruire una realtà istituzionale dotata di un sistema fiscale e di un’organizzazione all’avanguardia, che diventa il bastione della Riforma cattolica nei territori germanici.

«La pace di Vestfalia riveste un’importanza straordinaria nella storia europea: essa segnò la fine dei conflitti e degli schieramenti di religione (la Francia cattolica si era alleata con la Svezia e i principati tedeschi protestanti) e la secolarizzazione delle relazioni internazionali che si sarebbero basate sugli interessi di Stato piuttosto che su quelli confessionali» (p. 163). Il secolo XVI, tuttavia, non è un periodo di crisi generale, di fanatismo e di formalismo, come si è ritenuto a lungo, ma di ristrutturazioni e di trasformazioni in parti significative della società e dell’economia europee. Non mancano guerre, carestie, epidemie e intemperanze climatiche, che crearono un clima di generale insicurezza, propizio anche allo scatenarsi della caccia alle streghe, fenomeno piuttosto marginale «[...] ove erano all’opera l’Inquisizione romana e quella spagnola [...] preferendosi scindere il nesso eresia-strgoneria che altrove stava portando al rogo migliaia di donne» (pp. 178-179). Il secolo XVI è «[...] è anche l’età del barocco (l’età barocca), e se il termine crisi evoca immediatamente situazioni di difficoltà, di penuria, di regresso, il vocabolo barocco ci richiama situazioni e questioni di tutt’altro segno. [...] Il barocco è stato una grande espressione della cultura, in grado di spaziare da Monaco a Cracovia, da Roma a Lisbona, da Vienna a Bruxelles, da Città di Messico a Macao, e l’età che da esso ha preso il nome è segnata certamente dalla grande crisi generale, ma anche dalle diverse risposte che a essa ogni paese diede» (pp. 196-197).

Alla pace di Westfalia segue la pace dei Pirenei, del 1659, che segna la fine dell’egemonia spagnola in Europa e l’inizio di quel lungo periodo di tempo conosciuto come il secolo del re Luigi XIV di Borbone (1638-1714), caratterizzato dalla politica aggressiva del Regno di Francia, ma anche dall’affermazione dell’Olanda, dal protagonismo marittimo dell’In­ghil­ter­ra — dal 1707 Regno Unito di Gran Bretagna, potenza militare ormai impegnata pienamente nella politica europea — e dalla ripresa delle fortune del ramo austriaco della Casa d’Asburgo, «[…] circonfuso di gloria per aver riportato la croce in territori fino ad allora dominati dalla mezzaluna» (p. 200) dopo la vittoria di Vienna nel 1683 e l’inizio di una marcia trionfale nei Balcani. Negli anni di Luigi XIV la Francia raggiunge il suo apogeo nelle arti, nelle lettere, nelle scienze, nella potenza militare e negli ordinamenti statali. Il re incrementa il potere della monarchia grazie anche a un processo di disciplinamento della nobiltà che, «[...] pur senza perdere le ragioni della sua preminenza sociale, si trasformò in un ceto di cortigiani» (p. 204); sottopone le province a un controllo più stretto tramite l’azione degli intendenti ed entra in conflitto con la Chiesa cattolica, di cui intende limitare le prerogative, facendo del suo regno il modello dello Stato assolutistico.

Le Guerre di Successione, dal 1701 al 1748, e la Guerra dei Sette Anni (1756-1763) segnano il secolo XVIII, determinando per la Spagna un cambio dinastico — dalla Casa d’Asburgo a quella di Borbone — e la perdita di tutti i territori in Europa, passati in gran parte alla Casa d’Austria, per la Francia l’abbandono di molti possedimenti coloniali a vantaggio della Gran Bretagna, che diventava la garante dell’equilibrio europeo e la prima potenza navale mondiale. Anche il XVIII, dunque, è un secolo di guerre e di violenze, però mascherate «[...] sotto una patina di civiltà che i conflitti del Seicento non avevano» (p. 228); è più noto, invece, come il «Settecento riformatore», un’epoca in cui i sovrani, coadiuvati da ministri e da uomini di cultura, tentano di mutare gli assetti politici, economici e sociali delle proprie realtà territoriali al fine di accentuare il controllo statale dell’assistenza e dell’istruzione, stabilire il monopolio su matrimonio, famiglia ed educazione, garantire allo Stato maggiori introiti fiscali. «L’assolutismo illuminato (o dispotismo illuminato) che fu praticato dai monarchi era il frutto di una visione astratta e intellettualistica delle esigenze dei sudditi e dello Stato. Il livellamento dei particolarismi, la soppressione dei tradizionali istituti assistenziali, il libero corso consentito allo sviluppo del mercato (che generalmente significava aumento dei prezzi o penuria dei beni alimentari, venduti sulle piazze che offrivano un prezzo più alto), la polemica contro le istituzioni ecclesiastiche e contro i culti ritenuti frutto della superstizione provocarono l’ostilità della nobiltà, della Chiesa e delle masse popolari» (pp. 229-230).

I sovrani favoriscono la lotta alla Chiesa cattolica e non ostacolano il processo di desacralizzazione della società, senza immaginare «[...] che, con la società, si desacralizzava il proprio potere, né che potessero diventare più vulnerabili di fronte ai loro sudditi» (p. 261). In questo modo aprono la strada alla Rivoluzione del 1789, che viene descritta nell’ultimo capitolo del libro come «[...] un blocco unitario, non una serie di rivoluzioni, alcune delle quali più legittime delle altre a seconda delle convinzioni ideologiche o culturali degli osservatori coevi o degli storici» (p. 272). Di essa Spagnoletti racconta le fasi salienti, le resistenze interne — sia «la vera e propria controrivoluzione di ispirazione monarchica» (p. 279) in Vandea, sia la reazione federalista in Provenza e in alcune città del Nord contro l’accentramento rivoluzionario — e la feroce repressione. L’esportazione della Rivoluzione in Europa si accompagna a una dura politica di spoliazione dei territori occupati, che priva gli eserciti repubblicani di ogni simpatia e suscita violente insorgenze. Spagnoletti enfatizza la «[...] crudele repressione che portò al massacro di tutta la classe politica repubblicana» (p. 289) a opera dell’esercito realista della Santa Fede del 1799, osservando tuttavia che «le insorgenze (se ne ebbero in tutta Italia) testimoniano [...] il forte disagio di ampie masse della popolazione nei confronti di ordinamenti imposti da una potenza straniera e l’esigenza di difendere un senso di appartenenza nazionale fondato sul mantenimento dei valori tradizionali» (p. 290). Anche Napoleone Bonaparte (1769-1821), imperatore francese dal 1804, sperimenta le resistenze europee, «[...] che in molte località si configurarono come vere e proprie guerre di popolo» (p. 295), dalla Calabria al Tirolo, dalla Spagna alla Russia.

L’esperienza napoleonica lascerà in eredità all’Europa non solo il «grande processo di modernizzazione della società» (pp. 295-296) ma anche la nascita di un sentimento nazionale avverso agli ideali supernazionali diffusi fino ad allora, che produrrà un ulteriore rimescolamento ideologico e politico e aprirà la strada alle grandi catastrofi del secolo XX.



[1] Cfr. Angelantonio Spagnoletti, Stato, aristocrazie e Ordine di Malta nell’Italia moderna, École Française de Rome-Università degli Studi di Bari, Roma 1988.

[2] Idem, Storia del Regno delle Due Sicilie, il Mulino, Bologna 1997, p. 7.

[3] Ibidem.

[4] Cfr. Idem, Prìncipi italiani e Spagna nell’età barocca, Bruno Mondadori, Milano 1996.

[5] Cfr. Idem, Le dinastie italiane nella prima età moderna, il Mulino, Bologna 2003.

[6] Cfr. Idem, Il mondo moderno, il Mulino, Bologna 2005. Tutti i riferimenti fra parentesi nel testo rimandano a quest’opera.

[7] Cfr. John H.[uxtable] Elliot, A Europe of Composite Monarchies, in Past & Present. A journal of historical studies, anno XL, n. 137, Oxford University Press, Oxford novembre 1992, pp. 48-71, trad. it., L’Europa delle monarchie composite, in Annali Italiani. Rivista di studi storici, anno I, n. 2, Milano luglio-dicembre 2002, pp. 33-59.

Francesco Pappalardo
[4.2.2006]



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