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a cura dell’Istituto Storico dell’Insorgenza e per l’Identità Nazionale





RECENSIONI



CHEN MING, Nubi nere s’addensano. L’autobiografia clandestina di un sopravvissuto alla persecuzione, trad. it., prefazione di Frediano Sessi, postfazione di Camille Loivier, Marsilio, Padova (marzo) 2006, pp. 224, € 14.



1. Nella Cina libera e contadina

C hen Ming — lo narra nel primo capitolo del volume (pp. 17-64) — nasce nel 1908, l’anno in cui sale al trono celeste l’ultimo imperatore, Aisin-Gioro Pu Yi (1906-1967; imperatore dal 1908 al 1912), reso noto dal film di Bernardo Bertolucci del 1987.

Viene da una famiglia di braccianti rurali dello Shanxi, nel nord del paese, poverissima e ancora immersa pienamente nel tradizionale universo di credenze dell’antica Cina. È dotato di una viva intelligenza e di una forte memoria e vuole studiare. Spinto dalla madre, al prezzo di sforzi forse ormai inconcepibili per un uomo della nostra epoca, Chen riesce a frequentare le scuole pubbliche e nel 1921, a quindici anni, entra nella Scuola Normale per Istitutori, una specie di istituto magistrale. A diciassette è maestro in un piccolo villaggio di contadini. Vince una borsa di studio alla Scuola Normale per Professori.

Dopo la deposizione dell’imperatore e la proclamazione della Repubblica Cinese da parte di Sun Yat-Sen (1866-1925) aderisce al neonato Movimento di Nuova Cultura, che si pone sulla scia del movimento "4 maggio 1919", il quale ha come uno dei maggiori ispiratori Chen Duxiu (1879-1942); sebbene di tendenza nazionalistica il movimento propugna l’apertura della cultura cinese ad alcuni dei valori occidentali.

Chen Ming apprezza questa tendenza e finirà, anche perché vi conta diversi amici, ad aderire al partito nazionalista cinese, lo Zhongguo Guomindang. Nel 1926 passa alla scuola magistrale centrale di Nanchino, nella regione centro-orientale del paese, dove nel 1928 arriva addirittura a diplomarsi, e inizia a insegnare storia nei licei. I suoi anni di formazione sono segnati da continui spostamenti da un istituto all’altro e da una città all’altra, in quanto Chen è costantemente pressato dalla necessità di ottenere dei sussidi, e i viaggi, in gran parte a piedi per i problemi di circolazione e per gli esodi imposti dalla guerra civile, sono sovente avventure assai rischiose. Nel 1935 riesce a coronare il suo sogno di frequentare un’università e si iscrive a un non meglio precisato Istituto di Economia di Londra, che raggiunge dopo un lungo viaggio per nave e per treno. Qui studia storia contemporanea europea e, sempre più attratto dal cristianesimo, grazie alla frequentazione di un gruppo cristiano — Chen non dice se si trattasse di cattolici o evangelici — che sosteneva le missioni in Cina, riceve il battesimo. «Da allora — scrive —, ho sempre trovato conforto nella religione e il suo aiuto fu d’inestimabile valore nel corso della mia esistenza» (p. 55). Nel 1938, rimasto privo di risorse, Chen deve far ritorno in patria, sbarcando a a Hong-Kong dopo un lungo e fortunoso tragitto. Si stabilisce quindi a Chong-quing, nella provincia del Sichuan, nella Cina sud-orientale, diventata nel frattempo la capitale della parte di Cina controllata dai nazionalisti, dove può trovare un impiego presso il Ministero dell’Educazione. Qui s’innamora, contraccambiato, di una giovane, Liu, già sposata — ma i matrimoni in Cina lasciavano poco spazio alle preferenze della donna — e madre di due figli, che per lui divorzierà. I due si stabiliscono a Chendu, capitale del Sichuan, e poi, finita la guerra con il Giappone, ancora a Nanchino, dove, nel 1946, Chen riesce a ottenere un insegnamento di storia all’università.

2. La guerra civile e la comunistizzazione della Cina

Negli anni fra il 1927 e il 1950 in Cina — racconta Chen nel secondo capitolo (pp. 65-83) — si combatte una terribile guerra civile di massa fra il partito del Guomindang, nazionalista, guidato dal generale Chiang Kai-shek (1887-1975), e il partito comunista, di cui è leader Mao Zedong (1893-1976), ed è questo un periodo di gravi tribolazioni per i popoli della Cina.

Nel 1949 i comunisti hanno infine il sopravvento ma le sofferenze dei cinesi non hanno fine. Viene fondata la Repubblica Popolare cinese e il partito comunista inizia la costruzione del socialismo nell’immenso e vetusto Impero celeste, che viene bruscamente e brutalmente forzato a passare da una condizione semi-feudale — ma le categorie politiche occidentali si possono applicare alla Cina solo in via di similitudine — a un regime collettivista moderno, senza tener conto dei differenti stadi di sviluppo, delle variegate etnie, delle numerose culture — in senso geografico e nel senso di stratificazione storica — e delle disomogeneità linguistiche e religiose presenti all’interno dei confini del vecchio impero.

La lunga e tremenda guerra che il partito comunista, attraverso lo Stato, intraprende a ondate contro la nazione, la tradizione, il senso comune ha anche in Cina, come in tutti i paesi caduti sotto il comunismo, aspetti di violenza e di ferocia difficilmente immaginabili. Per chi voleva costruire con tutti i mezzi una società senza classi, senza Dio e senza proprietà privata il primo nemico era rappresentato dalle élite non comuniste: religiosi, funzionari del governo del Guomindang, ufficiali nazionalisti, imprenditori, proprietari e intellettuali. Per sua sfortuna Chen era parte, anche se di infimo ordine, di questa classe intellettuale e per di più, in quanto impiegato, aveva «collaborato» con il governo pre-comunista. Per cui in breve Chen cade nel mirino dei comunisti.

3. I laogai

Dal 1951 fino al 1981, quando viene riabilitato, la sua vita diventa così un inferno. Il mite professore viene sottoposto a una incessante e terrificante persecuzione, che affronta tuttavia con mite fermezza e con profondo coraggio.

Alla narrazione di questa vicenda Chen Ming dedica le pagine che comprendono metà del secondo capitolo (p. 71-83) e i capitoli dal terzo all’ottavo e ultimo (pp. 85-206): solo le ultime tre pagine sono riservate agli anni della liberazione e della riabilitazione.

La prima ondata di terrore comunista si apre in Cina nel 1951, con una radicale epurazione delle vecchie classi dirigenti. In questo periodo viene allestita un’immensa rete di campi di detenzione, di cui solo di recente si è cominciato ad avere qualche informazione e a pronunciare il nome: i laogai, letteralmente luoghi di «correzione attraverso il lavoro penitenziario». I campi ben presto si riempiranno di tutti coloro — e saranno milioni — che, a ondate successive, con rigoroso puntiglio e al di là di ogni riscontro concreto, il Partito bollerà come nemici di classe o del popolo e deporterà. E si tratterà solo di quegli «elementi» che il partito ritiene abbiano qualche chance di ricupero al socialismo oppure le cui «colpe» in ultima analisi non sono così patenti: per gli altri il partito applicherà trattamenti molto più spicci e ultimativi.

Chen già dal 1949 aveva perso il lavoro all’università. Il 12 aprile 1951 viene arrestato per la prima volta e rinchiuso detenuto nelle celle di un commissariato, un luogo immondo, dove viene torturato e sottoposto alle prime sedute di autocritica e di rieducazione attraverso un mix di marxismo, di lavoro forzato, di privazioni e di percosse. Non è possibile accusare Chen, come quasi tutti gli altri infelici imprigionati, di un crimine preciso, per cui la polizia — leggendo l’autobiografia che, come ciascun detenuto, è costretto a scrivere e riscrivere senza posa, per decine di volte — potrà solo rimproverargli: «Abbiamo letto il tuo rapporto, crediamo che tu non saresti potuto riuscire nella vita senza l’appoggio del partito nazionalista. Da solo, visto che vieni da un ambiente così povero, non avresti potuto neppure aspirare a un grado d’educazione simile» (p. 77). Questo sarà il Leitmotiv genuinamente classista di tutta la cataratta di persecuzioni — interrogatori, ricatti, deportazioni, perquisizioni, licenziamenti, sequestri di ogni oggetto personale — che si abbatterà non solo su Chen, ma anche su sua moglie e sui figli di lei — un maschio e una femmina —: nessun reato commesso, ma solo l’appartenenza — per di più errata, perché Chen non è mai stato iscritto al Guomindang — a una categoria sociale ritenuta «infame» per definizione, considerata criminale solo in base un pregiudizio di natura ideologica. Ma Chen, anche di fronte ai tormenti e alle minacce più spaventosi, non accetterà mai di confessare crimini che non ha commesso.

La gamma delle torture attive e passive, fisiche e psichiche, e delle violenze di ogni genere — talora i prigionieri addirittura si auto-infliggono delle lesioni pur di sfuggire ai lavori più massacranti e certamente mortali — di cui sono costellati i reiterati imprigionamenti di Chen, che si ripeteranno implacabilmente in coincidenza con ogni nuova «campagna» e ogni stretta di vite che il regime attua contro i suoi presunti oppositori interni, va dal permesso di lavarsi solo ogni due mesi e di farsi tagliare — non certo da un barbiere professionista — i capelli ogni cinque fino a far incancrenire per mancanza di cure ogni ferita riportata dai prigionieri. La sequenza degli orrori dipinti da Chen affolla pagine e pagine della sua autobiografia.

Nel 1951, riporta una condanna a cinque anni di lavori forzati — costruire gli argini di un grande fiume senza avere strumenti di scavo — nelle gelide baracche di un laogai situato sulle colline nei pressi del lago di Hongze, nella provincia di Jangsu. Nel giugno del 1956, dopo un quinquennio di sofferenze inenarrabili, Chen viene rilasciato. Può tornare a casa, ma non trova lavoro e perde i "diritti politici"; è costretto, lui, professore universitario, a fare lo spazzino. Pur non venendo più rinchiuso in un laogai, Chen viene sottoposto a continua sorveglianza e a frequenti riunioni obbligatorie di indottrinamento politico.

4. Le grandi «campagne» del regime comunista

Nel 1957 Mao lancia la grande campagna per estirpare gli «elementi di destra» sopravviventi. Era stata preceduta da un’altra campagna, la celebre campagna «dei cento fiori», durante la quale gli intellettuali erano stati incoraggiati a esprimere liberamente le loro critiche al regime maoista e le loro idee di riforma. Poi, nel 1957 una rapida e brutale «gelata» aveva colpito i «fiori» sbocciati nel 1956. Gl’intellettuali, soprattutto quelli che si erano esposti di più, iniziano a essere di nuovo perseguitati e deportati nei laogai con condanne fino a quindici anni. La nuova, colossale epurazione non colpisce questa volta direttamente Chen ma sua moglie Liu, classificata d’ufficio in quanto insegnante come «elemento di destra». Cacciata dall’impiego, viene sottoposta per settimane a durissime sessioni di autocritica pubblica, che la umiliano in tutti i modi fino a minarne il fisico. Nel 1958 è la volta della nuova campagna di guerra sociale, intitolata il «Grande Balzo in Avanti», ossia un’ulteriore ampliamento della collettivizzazione delle campagne e un incremento degli obiettivi dell’industria. Già dopo due anni, l’operazione si risolve in un fallimento totale e in un disastro per le campagne, dove si verificano ripetute e gravissime carestie naturali e «artificiali», che uccidono milioni di contadini. Durante questo periodo la famiglia di origine di Chen soffre aspri patimenti.

Al disastro del Grande Balzo fa seguito la campagna contro i «cattivi elementi», che vengono divisi in quattro categorie di anti-sociali: i proprietari terrieri, i contadini ricchi, i contro-rivoluzionari, gli «elementi di destra» e i criminali. Il controllo su Chen e sua moglie si fa ancor più aspro, con continue irruzioni della polizia nella loro casa e una infinita serie di umiliazioni pubbliche. Nel 1962 il figlio maschio viene tolto ai genitori e avviato a un processo di rieducazione a cura dello Stato che si svolge in una provincia lontana, lo Xinjiang.

5. La Rivoluzione culturale

Dopo altre campagne minori, ma non meno dolorose — come quella della fusione dei rottami ferrosi negli «altiforni di caseggiato» —, al popolo cinese fu inflitta nel 1965 la cosiddetta Rivoluzione Culturale — Chen le dedica la pagine da 187 a 198 dell’ottavo capitolo —, la più nota forse in Occidente, anche perché in quel periodo, che culminerà con il «Sessantotto», la «Cina era vicina» e numerosi erano i simpatizzanti per il comunismo maoista soprattutto fra gli studenti e gl’intellettuali europei e a americani. Per inciso potremmo chiederci: perché tante «ragazze» e ragazzi «del secolo scorso» — ossia i comunisti alla Rossana Rossanda —, non hanno dovuto fare ammenda, né tanto meno pagare, per la loro complicità morale in questa tragedia? Tutto quanto di tradizionale era sopravvissuto a quindici anni di comunismo radicale a partire dal giugno 1966 — giusto quarant’anni fa — viene messo sotto accusa come residuo del passato, che impedisce l’avvento pieno del socialismo. Un’orda di migliaia di «guardie rosse», per lo più studenti, scatenata dal vertice del partito, brandendo il «libretto rosso» delle citazioni del presidente Mao, nell’indifferenza delle autorità costituite, aggredisce tutto ciò che può limitare il potere maoista e imperversa malmenando, uccidendo, abbattendo templi e monasteri, distruggendo beni artistici e libri di pregio, mettendo alla gogna dirigenti «infedeli», intellettuali, presunti ricchi, nemici già bersaglio delle campagne precedenti, attuando una purga così bestiale che costerà la vita a milioni di cinesi, uccisi o indotti al suicidio, e che lascerà il paese stremato. Chen e sua moglie, «durante quest’epoca di folle idolatria» (p. 190) per il Grande Timoniere, subiscono ripetute e gravi umiliazioni pubbliche, soprusi e violenze e devono sfilare più volte, come da prassi, con il cartello di «elemento delle Quattro Categorie» al collo, fra due file di «popolo» urlante sobillato dalle guardie rosse. Ma tutto ha un fine e «[…] al tempo della lotta politica tra Lin Biao e Mao Zedong [alla fine degli anni 1970], le guardie rosse persero di utilità, motivo per il quale venne tolto loro [il] potere. Non solo. Vennero spedite nelle campagne. Beninteso, non ci si dimenticò della Quattro categorie, e così dovemmo — racconta Chen —, al pari dei nostri carnefici, trasferirci armi e bagagli in campagna» (p. 193). Chen, con la moglie, viene assegnato a una comune agricola, dove alloggia in una ex porcilaia e lavora come addetto alle pulizie delle stalle e delle latrine. Dopo quasi un anno, ammalatosi, ottiene il permesso di tornare a Nanchino, dove può riprendere il vecchio lavoro di spazzino. Nel 1972 d’improvviso i due vengono sfrattati per ordine della polizia e devono vivere in un furgone.

6. La liberazione

Nel 1975 la Rivoluzione culturale ha termine e la morte di Mao, l’anno dopo, fa decadere il sistema delle Quattro Categorie. Nel 1975, dopo tredici anni, il figlio viene liberato e può ricongiungersi con i genitori. Ma solo nel 1978 — la polizia dichiarerà trattarsi di un errore burocratico — l’etichetta di «cattivo elemento» viene rimossa da Chen. Il settantenne professore è stupefatto. Scrive: «Vent’anni prima ero stato classificato tra i Cattivi elementi e ora ero stato riabilitato. Dopo tutta questa storia, ancora ignoravo i motivi della mia condanna. Non avevo nessuna carta che dava disposizione del mio arresto» (p. 204). Solo nel 1981 «[…] lo stato riconobbe che ero stato condannato a cinque anni di laogai per errore» (p. 205). Nel 1990, con la morte di Liu, il lungo sodalizio di dolore e di eroismo fra Chen e l’amata consorte s’interrompe. Chen si spegne nel 1996.

7. Il volume di Chen

Il racconto di Chen — inizia a scrivere le memorie nel 1989 e le conclude nel 1991 — ha uno stile piano e un tono sommesso. In esso si vede come anche un Carneade, quando cade nel mirino, possa essere sottoposto, senza aver commesso alcun reato, a un «trattamento» di violenza sconvolgente da parte del potere moderno. E come un piccolo uomo possa affrontare e vivere e, infine, riuscire a lasciarsi alle spalle, quando abbia un animo sensibile — basta solo osservare le espressioni delicate e ammirate che Chen ha per la sposa — e una tenace trama morale vivificata e irrobustita dalla fede, questa tragedia.

Per altro verso, si tratta un resoconto di prima mano che illumina su che cosa sia stato il socialismo reale, la guerra implacabile che i regimi comunisti scatenano contro i popoli presso cui si instaurano, con i laogai o — Chen ne parla ogni due pagine — con il classico colpo di pistola alla nuca. Trattandosi di un’autobiografia l’immagine è ovviamente parziale, perché filtrata dall’esperienza individuale e dalla cultura dell’autore. Inoltre, molti particolari che aiuterebbero a formarsi un’immagine più precisa della vicenda, per motivi che non è dato sapere, sono assenti nel racconto di Chen e i curatori — va altresì detto —non si sono molto preoccupati di integrare le lacune del testo.

Pur con questi limiti il volume di Chen Ming — uscito in francese nel 2003 e tradotto in italiano nel 2006 a cura dello storico Frediano Sessi che vi ha apposto una sua breve prefazione (pp. 7-13), nella quale fa stato della memoria e sull’informazione che oggi si ha sui laogai — è un esempio di memorialistica anti-totalitaria di pregevole livello. Nonostante la scarsa originalità dei percorsi esistenziali narrati — del tutto simili, se non identici, a quelli descritti da altre vittime del comunismo —, la testimonianza del mite Chen può non sfigurare — al di là delle doti letterarie dell’autore — a fianco di quella di Aleksandr Solzenycin, del cubano Armando Valladares, di Jozséf Mindszenty (1892-1975), del cardinale François Xavier Nguyen Van Thuân (1928-2002) per il Vietnam. La sua rassegnazione e la sua forza indomabile rendono la sua sfortunata vicenda umana simile a uno dei molti acta martyrum — in questo caso fortuitamente incruenti —, narrati non da un agiografo, ma da chi è stato egli stesso protagonista del martirio.

Da ultimo, leggere le memorie di Chen può servire a togliere ogni illusione a chi, magari, è convinto che in un contesto ad alta temperatura rivoluzionaria, marxista-leninista nella fattispecie, come quello in cui Chen, senza volerlo, si è trovato immerso, l’uomo qualunque, il minor, l’insignificante possa defilarsi e scomparire: Chen dimostra che non basta non interessarsi di politica perché la politica, almeno una certa politica, non si interessi molto da vicino di noi. E anche a pensare due volte prima di comprare un prodotto made in PRC (Popular Republic of China).

Oscar Sanguinetti
[2.10.2006]


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