a cura dell’Istituto Storico dell’Insorgenza e per l’Identità Nazionale
inserito il 31 gennaio 2010
RECENSIONI
LUCIO VILLARI, Bella e perduta. L'Italia del Risorgimento, Laterza, Bari 2009, pp. 346, € 18,00.
Il 18 gennaio, alla presenza del Presidente della Repubblica, è stata inaugurata a Roma una mostra su Camillo Benso conte di Cavour (1810-1861), il primo presidente del Consiglio dello Stato italiano. Il bicentenario della nascita dello statista piemontese — che però non volle mai visitare Roma — segna l’inizio di un ciclo biennale di manifestazioni che culminerà nel 2011 con la celebrazione del centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia. Nel 2009, quasi "in via preventiva", lo storico calabrese Lucio Villari ha dato alle stampe Bella e perduta. L’Italia del Risorgimento, un’opera volta a ribadire la vulgata storiografica sull’argomento.
Fratello di Rosario — anch’egli storico, autore di un classico manuale per licei —, Lucio Villari insegna Storia Contemporanea nell’Università di Roma Tre, è autore di numerosi saggi sulla storia culturale, politica ed economica dell’Europa e degli Stati Uniti dal XVIII al XX secolo e collabora alle pagine culturali e alle iniziative editoriali del quotidiano la Repubblica. Mentre gli studi del primo Villari, Rosario, sono segnati generalmente da un’impronta marxista, le riflessioni del secondo presentano venature "azionistiche" e un insistito anticlericalismo: senza il potere temporale dei Pontefici "[...] Roma poteva diventare uno Stato moderno e libero" (p. 15); le leggi Siccardi avevano lo scopo di arginare i tribunali ecclesiastici, "[...] che agivano con arrogante autonomia al di fuori della legislazione dello Stato" (p. 240); dall’"alleanza" fra le gerarchie ecclesiastiche francesi e Napoleone III "[...] sgorgheranno negli anni successivi fiumi di conversioni religiose e di celebrazioni e culti di Maria Vergine, fino all’apparizione di una sorridente madonna, nel 1858, alla contadinella Bernadette a Lourdes" (p. 246); i moti scoppiati nelle Marche e in Umbria erano "[...] troppo per il papa, che scelse di far massacrare le popolazioni insorte dai reggimenti mercenari svizzeri" (p. 271). Non manca il ricorso a un’aggettivazione che non dovrebbero appartenere al vocabolario dello storico: il conte Clemente Solaro della Margarita, ministro degli Esteri di re Carlo Alberto di Savoia, è un "anacronistico conservatore" (p. 133); la polizia napoletana, va da sé, è "sbirraglia borbonica" (p. 279); e così via.
Villari, in controtendenza con le rivisitazioni critiche che vedono nel Risorgimento la causa di non pochi mali dell’Italia postunitaria, offre una ricapitolazione entusiastica del percorso risorgimentale nelle sue tappe fondamentali, dalla fase preparatoria degli anni di Napoleone Bonaparte alle guerre d’indipendenza e alla spedizione garibaldina in Sicilia del 1860. "Il Risorgimento — scrive altrove — fu [...] una felice congiunzione astrale sotto il segno della modernizzazione" (1).
L’opera è, dunque, un’appassionata rievocazione dell’"epopea" risorgimentale, presentata come un’esplosione di vitalità giovanile, una passione collettiva che coinvolse la parte migliore delle nuove generazioni, una élite postasi all’avanguardia del romanticismo europeo. "Non una voce stanca e nostalgica, ma quella di un giovane, allegro e lievemente incantato, dovrebbe raccontare le avventure e gli avvenimenti che hanno portato al risorgimento dell’Italia. La favola bella di un tempo non lontano, quando i protagonisti erano quasi tutti giovani [...]. Questa voce narrante dovrebbe dire che il Risorgimento, come lo fu la rivoluzione francese, è stata opera di giovani e che a loro si deve se l’Italia, dopo secoli di servitù, di speranze inutili, di indifferenza e di disillusioni, ha cominciato a non aver paura della libertà. [...] Attraverso queste vibrazioni romantiche e con l’emozione di un’epopea contemporanea deve essere riletto il Risorgimento" (pp. VII-VIII). Non è un caso che Villari intitoli il libro con le celebri parole Nabucco di Giuseppe Verdi, "Oh mia patria sì bella e perduta", richiamando l’importanza del melodramma e della produzione letteraria nella formazione culturale delle nuove generazioni nella prima metà del secolo XIX: "Verdi parve la traduzione musicale e poetica della rivoluzione nazionale [...]. È fuor di dubbio che i valori di libertà, di nazionalità, di identità patriottica che si trovano negli scritti politici e letterari degli anni Quaranta [...] avessero le premesse in una rilettura militante della storia politica; anzi, la storia e la critica letteraria furono, come abbiamo detto prima, strutture portanti di una visione strettamente politica del "risorgimento"" (p. 121 e p. 122). In questo modo lo storico calabrese si ricollega alle considerazioni della cosiddetta "nuova storiografia", rappresentata innanzitutto dagli studi del pisano Alberto Banti — il quale ha messo in luce l’esistenza di un "canone" risorgimentale che attraverso romanzi, poesie, dipinti e opere liriche ha generato un fitto repertorio di simboli, metafore e immagini popolari, che a loro volta hanno innescato un significativo mutamento culturale e politico (2) — e culminata, per ora, nel ventiduesimo volume degli Annali della Storia d’Italia (3), che riserva grande attenzione alla musica e alla poesia, ai proclami e agli epistolari familiari, alla pittura e alle stampe, utilizzati come mezzi di una più ampia comunicazione per plasmare la sensibilità e l’immaginario collettivo degli italiani, nella supposizione che occorresse risvegliare la nazione e liberarla dallo stato di servitù allo straniero nella quale era caduta.
Villari non trascura l’impatto che sugli avvenimenti ebbero le innovazioni tecniche — dalla ferrovia, "sentita come una proiezione di sentimenti, un oggetto-stato d’animo, una macchina evocativa di atmosfere" (p. 110), alle macchine a vapore, al telegrafo elettrico — e l’ideologia del progresso, che "[...] ebbe la consacrazione nell’Esposizione universale di Londra del 1851, la prima esibizione compiaciuta di sé di una rivoluzione industriale in atto" (p. 227). Queste considerazioni non fanno venir meno la natura eminentemente politica dei mutamenti occorsi nella penisola italiana, ma lo storico ritiene doveroso dar rilievo anche agli aspetti sociali ed economici, sottolineando "[...] la sproporzione che si veniva creando tra le condizioni materiali dei contadini, degli operai, dei ceti produttivi di varia natura, tutti operanti dentro strutture, codici, legislazioni, rapporti tra classi, da riformare forse con maggiore urgenza, e le battaglie patriottiche, i canti dei poeti, gli opuscoli di propaganda, i comizi di facondi oratori" (p. 184). Senza accogliere la tesi di Antonio Gramsci sul Risorgimento come rivoluzione agraria mancata — "vi è stata anche una superficiale critica da sinistra del Risorgimento" (p. 4) —, lo storico si sofferma sulla contraddizione città-campagne, sottolineando il carattere eminentemente cittadino della mobilitazione risorgimentale: "Il "popolo" cui si rivolgeva Mazzini erano appunto i cittadini e non gli abitanti delle campagne. Sarà questo il tallone d’Achille dell’Italia quando si giungerà all’unificazione nazionale, cioè a un’aggregazione in cui l’universo cittadino e quello contadino, che erano sempre in orbite sociali e culturali diverse, dovevano ora rispondere a leggi, regolamenti, doveri e diritti assolutamente uguali" (p. 187). Ciò non toglie, a suo avviso, che il Risorgimento abbia avuto un’anima popolare, e in proposito ricorda più volte l’adesione di tanti cittadini ai numerosi moti popolari.
Villari, inoltre, aderisce alla lettura della Resistenza come "secondo Risorgimento". Nel 1943 l’Italia, tagliata in due e percorsa da eserciti stranieri, sarebbe stata protetta dall’eredità degli entusiasmi unitari. La Resistenza "[...] ha unito la rivoluzione risorgimentale (cioè le armi, le parole, i sentimenti e gli istinti collettivi, le scelte politiche) all’antifascismo. Senza questo richiamo ideale avrebbe avuto gravi limiti politici e operativi" (p. 6). Gli resta però il rammarico per l’eredità laicista risorgimentale tradita proprio dai "resistenti" in sede di Assemblea Costituente dove, nel 1947, i comunisti votarono l’articolo 7 della Costituzione, che riconosce un regime particolare alla Chiesa cattolica. Non tutte le ciambelle riescono con il buco.
Francesco Pappalardo
Note
(1) Come sapeva Croce ci salverà la nausea, intervista a cura di Mirella Serri, in TuttoLibri, inserto de La Stampa, Torino 14-11-2009.
(2) Cfr. Alberto Mario Banti, La nazione del Risorgimento. Parentela, santità e onore alle origini dell’Italia unita, Einaudi Torino 2000.
(3) Cfr. Idem e Paul Ginsborg(a cura di), Il Risorgimento, Einaudi, Torino 2007.
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